Gennaio 25, 2018

L’importanza di chiamarsi Federer

Vederlo danzare su un campo da tennis è un’esperienza mistica, quasi illusoria. Perché credere che un uomo di 37 anni riesca ad essere così leggiadro e allo stesso tempo incisivo è un messaggio ingannevole, mina la stabilità del nostro cervello. Ci abbiamo provato tutti, in fondo. La domenica mattina abbiamo indossato il suo completino, ci siamo guardati allo specchio e qualcuno ha perfino osato indossare la sua fascia per capelli (nonostante una calvizie incombente!).

La racchetta, poi, quella è la bacchetta magica. Neanche il venditore Olivander di Harry Potter è più informato di noi sull’attrezzo che andremo a maneggiare: sappiamo tutto di lei. Anzi: della lei di lui, di Roger Federer. Peso, tensione delle corde, overgrip giusto. Non ci sfugge niente. Siamo perfetti, all’apparenza. Dai calzini al polsino, sembriamo pronti a ripetere le sue gesta oceaniche anche qui, al campetto comunale. Che alla fine il nostro momento arriverà. Un osservatore in vacanza, un allenatore in incognito, un tecnico che passa per caso si fermerà a guardarci e dirà: “Ma com’è possibile che ancora non sei stato convocato in Coppa Davis?“.

Sì, il sogno dura poco però. Giusto il tempo del riscaldamento. Cinque minuti al massimo, poi subito partita. Noi non abbiamo bisogno di certi riti. Siamo nati pronti. Meglio di Roger. Ed è lì che ti accorgi che forse hai osato troppo, che meglio di Roger nel tennis non nascerà mai nulla. Tenti di imitarne il lancio-palla. E all’amico che ti riprende da fuori (video-analisi sì, professionismo puro) fai un po’ pena, ma ti vuole così bene che non te lo dirà mai. Subito dopo il servizio sei lì, in posizione d’attesa e magari hai anche 10 anni meno di lui, ma la reattività di Federer te la sogni.

Fondamentali? Chi dice che Dimitrov è cresciuto copiando Federer non ti ha mai visto giocare. Dritto e rovescio made in Svizzera, roba che neanche il primo maestro di Roger ha qualcosa da insegnarti. Peccato che i risultati siano scadenti e anche la soddisfazione di dire:”Al torneo ho perso ma almeno ho fatto il mio gioco” – visto che il gioco è il suo – se ne vada a quel paese. Quale Paese? Ma sì, siamo a gennaio e godiamoci questo Federer australiano. L’ultimo highlander di una generazione che così bella non l’avremo mai più. C’avevano detto che Nadal era quello dal fisico d’acciaio, ma alla fine a ritirarsi al quinto per problemi muscolari è stato lui. Roger, quello dotato soltanto di classe, invece è lì, ancora lì, a zampettare allegramente come niente fosse.

Lo attende una semifinale con un coreano che fa impressione per atletismo e tempo sulla palla. Si chiama Chung: e già dal nome capisci che rimbalza da una parte all’altra del campo come niente fosse. Riuscirà a battere Federer? Non lo sappiamo. Né ci interessa, lo diciamo apertamente. Sua Maestà regna ancora e questo conta. E noi, sudditi felici e contenti, continuiamo a godere della sua aura di invincibilità. Convinti che – almeno- fino a 37 anni siamo ancora in tempo a vivere dei nostri sogni. Sì, è soprattutto questa l’importanza di chiamarsi Federer.

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