Aprile 3, 2019

Il capro espiatorio

C’è una manina quando le cose non vanno. Sempre. Un colpevole, un condannato senza processo. E’ questa la cultura dei 5 stelle, la piattaforma creata da Di Maio per giustificare la propria incapacità e i propri errori. Il populismo di governo è uno scaricabarile senza fine, una campagna elettorale permanente, un attacco personale indegno. Nel tritacarne finisce così Giovanni Tria, che di questo governo è stato dal primo giorno un corpo estraneo, e adesso sconta la sua vicinanza più o meno presunta con una consigliera che di celebre ha solo il cognome: Bugno. Non il grande Gianni.

Ora, che il figlio della seconda moglie di Giovanni Tria sia stato assunto nell’azienda del marito della Bugno è evidentemente un argomento che non può interessare alla gran parte dell’opinione pubblica. Quanto meno non a quella che, piuttosto che ai destini del figliastro del ministro del Tesoro, è interessata a conoscere il destino dell’economia del Paese. Un’economia che l’Ocse ha fotografato senza ossigeno, che il Fondo Monetario Internazionale vede instabile e il presidente della Commissione europea definisce preoccupante.

In tutta questa serie di considerazioni, forse non marginali, si inserisce l’elemento caratterizzante dei 5 stelle al governo: l’incapacità di mettere a fuoco il problema. Secondo Di Maio il problema non è la crescita zero: sono le amicizie di Tria. Secondo i grillini il guaio non sono le misure inserite in una Manovra che andrebbe (e andrà) riscritta punto dopo punto. No, sono le resistenze (comprensibili) di Tria a firmare il decreto sui rimborsi ai risparmiatori che espone lui e i funzionari del Tesoro ad una responsabilità dinanzi alla Corte dei Conti in assenza di un dispositivo chiaro, preciso, certo, che dica quanto spetta e a chi.

Non è la prima volta che si rincorrono voci di dimissioni di Tria, non sarà l’ultima che saranno smentite. Il contabile con la passione per il tango resterà al suo posto per lo stesso motivo per cui non ha lasciato il suo incarico a settembre dell’anno scorso: un suo eventuale passo indietro lascerebbe l’Italia in balia dei mercati, che non capirebbero (o meglio, forse capirebbero fin troppo bene) come mai il ministro dell’Economia si dimette da un governo che fino ad oggi ha assicurato di avere i conti in ordine. D’altronde non che ci siano troppe alternative: perché se cacci Tria devi mettere un altro al suo posto. E, schizzati a parte, al momento non sembra esserci nessuna figura disposta a salire su questa folle giostra e allo steso tempo in grado di mettere d’accordo i tre attori: M5s, Lega e Quirinale.

Resta l’amarezza di una deriva ormai assodata, forse irreversibile. Quella di un sistema, il nuovo, che abbatte chi non si allinea a colpi di fango, di melma tutta da dimostrare, di accuse e di gossip, di veleni e illazioni.

Perché è questo, in fondo, che è rimasto in assenza di numeri incoraggianti, di una politica economica seria, del coraggio di attuarla: il racconto di una favoletta. E in ogni favola che si rispetti c’è sempre un cattivo, un capro espiatorio. Tria, per questa volta.

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