Un sindaco (gay) alla Casa Bianca?
Un sindaco (gay) alla Casa Bianca? Punto di domanda inevitabile. Troppo presto per dire se Pete Buttigieg sia il favorito per la nomination democratica e battere poi Donald Trump. Eppure in Iowa ecco l’indizio, la scintilla che innesca il possibile incendio. Quel ragazzo piace. Quel ragazzo è qualcosa di più di un ragazzo. Da dov’è uscito fuori il brillante sbarbatello che l’establishment dei Democrats ha sottovalutato? Chi è questo abile oratore che invoca un cambio generazionale nella politica a stelle e strisce? Che rischia di togliere a Joe Biden, lo zio d’America, il ruolo di punto di riferimento per l’elettorato moderato, se così si può definire un partito che comunque vada, chiunque vinca, si sposterà più a sinistra di Obama?
Eletto due volte sindaco di una cittadina dell’Indiana fino a qualche mese fa sconosciuta, South Bend, ha ricevuto il via libera dai suoi concittadini per inseguire il sogno che porta a Washington. Chissà quanti di loro ci credevano davvero. Chissà se tra gli scettici c’era anche lui. La prima tappa delle primarie democratiche, i caucus in Iowa (ancora attendiamo il risultato definitivo, incredibile), hanno detto che il 38enne ha stoffa. Nonostante un cognome impronunciabile, eredità di un padre maltese. Nonostante l’inesperienza. Il maggiore handicap di quello che per semplicità viene chiamato da tutti Mayor Pete. Un po’ come se noi lo chiamassimo Sindaco Pietro.
Non è mai stato eletto al Congresso, non ha mai svolto un grosso incarico a livello nazionale: ha governato soltanto la sua cittadina d’origine, 100mila abitanti in tutto. Numeri alla mano, è come se domani il sindaco di Ancona si svegliasse e decidesse di diventare presidente della maggiore potenza al mondo. Per dire: i sindaci di Giugliano, Novara, Bolzano, in termini prettamente demografici, avrebbero migliori argomenti per rivendicare la Casa Bianca e il ruolo di commander-in-chief del più forte esercito del globo. Ma è qui che si manifesta il miracolo della politica, l’imprevedibilità che la rende arte nobile, se ben fatta. Lo ha spiegato Buttigieg nel discorso di (presunta) vittoria in Iowa, quando i dati disponibili del suo comitato erano pochi e incerti (ogni tanto serve azzardare): “Un anno fa avevamo 4 membri dello staff, nessun riconoscimento, zero soldi, solo una grande idea“.
Non ci sono garanzie che basti. Il campo è minato. Lui è consapevole che per arrivare dall’altra parte ha bisogno di suscitare qualcosa di straordinario: “Il Partito democratico non ha vinto quando ha scelto un candidato del passato, un personaggio inevitabile. Ha vinto con Kennedy e Carter, con Bill Clinton e Barack Obama, abbracciando la novità, guardando al futuro“. Che si senta un predestinato è evidente: “Non sono venuto qui per porre fine all’era di Donald Trump. Sono qui per lanciare l’era che deve venire dopo“.
Ora capite perché nel titolo la parola “gay” è tra parentesi. La questione omosessualità, qualora Buttigieg dovesse andare avanti, avrà un peso, inutile nasconderlo. Porterà con sé un’inevitabile bagaglio di battute da censurare, a partire dal fatto che per la prima volta potremmo avere alla Casa Bianca un First Gentleman, anziché una First Lady. Si presterà agli attacchi di chi di politica sa poco, di vita ancora meno. Ma alla fine, visto il personaggio, è chiaro che quella parentesi ha un senso. E’ ciò che conta meno, in questa folle, incredibile, bellissima storia.