Agosto 20, 2020

La grande paura di Obama: Trump potrebbe non riconoscere la sconfitta

Dimenticate l’Obama del “Yes we can”. Mettete da parte le speranze di quegli anni, l’idea che l’America e il mondo potessero cambiare sulla spinta del primo Presidente nero della storia, la convinzione che la traiettoria intrapresa da Barack fosse un destino meravigliosamente ineludibile, assolutamente irrevocabile. Certezze crollate in quel 2016 che sembra lontano un secolo, quando il biondo di Manhattan, Donald Trump, confezionò l’impresa sulla carta impossibile: battere Hillary Clinton, prendersi la Casa Bianca.

Quattro anni dopo il mondo è capovolto, tragicamente rovesciato, protagonista di un drammatico sottosopra. E chissà cosa darebbe, Barack Obama, per esserci lui a giocare quella che il Partito Democratico considera non a torto la partita della vita. Di più: la battaglia che segnerà il destino delle prossime generazioni.

Non è più l’energico senatore dell’Illinois pronto a sbaragliare la concorrenza con la potenza di un sogno. Con due mandati da Presidente alle spalle, anche Barack Obama ha fatto il suo tempo. Ma se pure ha la straordinaria eleganza di concedere a Kamala Harris l’onore di chiudere la terza serata della convention democratica per “passare il testimone”, è sempre a lui che milioni di americani guardano per capire dove tira il vento. Cosa attendersi dal domani.

La risposta di Obama è che tira aria di burrasca. Nonostante i sondaggi più che lusinghieri nei confronti dell’amico fraterno Joe Biden, i Democratici hanno paura di perdere le elezioni. Non è soltanto lo scotto dell’esperienza di Hillary nel 2016, non si tratta di scaramanzia o paranoica precauzione: i Democrats temono di essere sconfitti indipendentemente da ciò che diranno le urne. Basta questo per chiarire che la posta in palio è molto più alta di un’elezione: c’è in gioco la democrazia.

Eccola, la parola chiave del discorso di Barack: la pronuncia non a caso per diciotto volte. Gli sforzi dell’amministrazione Trump per rendere difficile il voto di milioni di americani, su tutti il sabotaggio del voto per posta, non sono un’invenzione. Sono piuttosto la conferma di ciò che molti temono: che Donald Trump si rifiuti di riconoscere la sconfitta.

Per questo serve quella che gli americani chiamano “landslide victory”, una vittoria schiacciante, a valanga, che tolga a Trump ogni possibile appiglio per contestare il voto, ogni possibile scusa per chiedere di ripeterlo, per evitare che la partita politica venga incredibilmente decisa nei tribunali degli Stati in bilico, tra schede da ricontare e – addirittura – con un voto del Congresso per decidere il nuovo presidente. Per scongiurare il rischio di scontri per le strade, in un clima da guerra civile che l’America ben conosce.

Fantascienza? Forse. Ma quattro anni di Donald Trump hanno insegnato a Barack Obama che niente è impossibile. Per questo, in uno dei passaggi più intensi del suo discorso, sui rischi dell’inazione degli americani, avverte: “È così che una democrazia appassisce, finché non è più una democrazia. Non possiamo permettere che questo accada. Non lasciate che vi tolgano il potere. Non lasciate che vi portino via la vostra democrazia. Fate subito un piano per il vostro coinvolgimento e per il voto. Fatelo il prima possibile e dite alla vostra famiglia e ai vostri amici come possono votare anche loro. Fate quello che gli americani hanno fatto per oltre due secoli di fronte a tempi ancora più duri di questo – tutti quegli eroi silenziosi che hanno trovato il coraggio di continuare a marciare, continuare a spingere di fronte alle difficoltà e all’ingiustizia“.

Poi la chiusura: “Questa amministrazione ha dimostrato che distruggerà la nostra democrazia se questo è ciò che serve per vincere. Quindi dobbiamo impegnarci a costruirla – riversando tutti i nostri sforzi in questi 76 giorni, e votando come mai prima d’ora – per Joe e Kamala, e per tutti i loro candidati, in modo da non lasciare dubbi su ciò che questo paese che amiamo rappresenta. Oggi, e per tutti i nostri giorni a venire“.

Sul finire, prima della tradizionale benedizione dei presidenti, una smorfia che vale più di mille parole. Per dire che anche i grandi leader hanno paura, quando l’esito di una battaglia non dipende solo da loro.

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