Aprile 29, 2021

Rivoluzione Biden: perché non è un presidente di passaggio

Mitt Romney, ex candidato alla presidenza sconfitto da Obama nel 2012, ma allo stesso modo uno dei Repubblicani moderati di cui Joe Biden ha bisogno per portare avanti la sua agenda, dopo aver ascoltato l’ultima proposta del presidente, un American Families Plan da 1.800 miliardi di dollari, ha sentenziato con una certa ironia: “Forse, se fosse più giovane, direi che suo padre deve togliergli la carta di credito“.

A sinistra, il Congresso nel 2020 – prima della pandemia – a destra l’immagine di un Congresso semivuoto, con soli 200 membri presenti rispetto agli usuali 1600.

Il pacchetto di riforme annunciato da Biden nel suo discorso al Congresso, alla scadenza dei suoi primi 100 giorni di presidenza, prevede, tra le altre cose, meno tasse per le famiglie con bambini, scuola d’infanzia gratuita e due anni di università pagati nei cosiddetti “community college”. Si aggiunge al già approvato American Rescue Plan da 1900 miliardi di dollari di aiuti per la pandemia e l’economia a cui dovrebbe seguire l’American Jobs Plan da 2300 miliardi di dollari per ricostruire 32mila km di strade, riparare i dieci ponti economicamente più importanti del Paese, eliminare i tubi di piombo dalle reti idriche e molto altro ancora.

Se non bastasse la politica a descrivere la portata della presidenza Biden, subentrerebbe di certo l’economia a chiarire che non siamo di fronte ad un mandato interlocutorio.

In maniera molto scaltra era stato lo stesso Biden, in campagna elettorale, a definirsi come un “transitional candidate“. Un modo per abbassare le aspettative, per smentirle al rialzo. Nemmeno il più ottimista tra i suoi sostenitori avrebbe pensato che un uomo di 78 anni, nel pieno di una delle più grandi crisi che l’America abbia mai affrontato, avrebbe avuto la forza per muovere non per piccoli passi, ma per balzi destinati a cambiare il volto della nazione.

Pur sfoggiando un orgoglio tipicamente americano, Biden sta ridisegnando la società su un modello di welfare europeo. Congedi parentali, credito d’imposta per i figli a carico, contributi per la cura dei bambini: sono tutti segnali della volontà di costruire una più salda rete di protezione nei confronti del tessuto sociale a stelle e strisce che ha più sofferto le crisi degli ultimi anni.

Sebbene non manchino le critiche di chi lo vorrebbe ancora più coraggioso – in questo caso la Radical Left vive una dimensione onirica in cui la realtà non trova spazio – Biden non ha paura di sfidare le grandi elite. Motivando la sua attenzione per i cosiddetti “blue collar“, ad esempio, il presidente ha chiarito: “Non ho niente contro Wall Street, ma questo Paese è stato costruito dal ceto medio“. E che le sue non siano soltanto parole lo si intuisce dalle misure economiche presentate. Per finanziare le sue riforme, Biden graverà sull’1% più ricco della popolazione e sulle grandi multinazionali che fanno profitti all’estero. Con buona pace di chi lo descriveva come il rappresentante dell’establishment.

La novità politica di Biden è paradossalmente un ritorno al passato. L’intervento dello Stato nella quotidianità degli americani è da tempo una delle linee di faglia tra Democratici e Repubblicani. Un grande presidente del Gop come Ronald Reagan sosteneva che “government is the problem, not the solution“. A fargli eco, 25 anni fa, era stato un altro presidente, ma di segno Democratico, Bill Clinton, sancendo che l’epoca del “big government is over“. Biden sembra invertire questo paradigma: almeno in questa fase storica lo Stato deve fare lo Stato, incidere sulle vite degli americani, anche quelli abituati a considerare ogni mossa di Washington come un’inaccettabile intrusione.

Soprattutto questo è il segno della rivoluzione di Joe Biden, finora tutto tranne che un presidente di passaggio.

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