“Putin Vs the West”: Vladimir aveva già deciso. Come l’Occidente ha tentato di fermare una guerra inevitabile – 3^ e ultima parte
“Per l’amor di Dio, trova un modo per prenderti cura di te stesso“.
Per comprendere la portata della terza ed ultima puntata del documentario “Putin Vs the West” bisogna partire dalla fine. E da questa frase, pronunciata da Boris Johnson nel corso di una drammatica telefonata con Volodymyr Zelensky nei minuti in cui la Russia dà inizio all’invasione dell’Ucraina.
È un BoJo evidentemente turbato dai ricordi, quello che svela di aver offerto al presidente ucraino il supporto del Regno Unito per mettersi in salvo. Offerta rifiutata dal leader di Kyiv rimasto, per dirla con le parole di Johnson, “eroicamente dov’era”.
Eppure nessuno, nessuno dotato di onestà intellettuale, dopo aver preso visione delle incredibili testimonianze messe insieme dalla BBC potrà accusare l’Occidente di non aver tentato tutto il possibile per convincere Vladimir Putin a desistere dai suoi intenti.
Per capire, bisogna riportare le lancette indietro di qualche anno. Quando il mondo non immagina neanche lontanamente di poter assistere ad una guerra di queste proporzioni nel cuore dell’Europa. È il 20 giugno 2017 quando Petro Poroshenko, presidente ucraino, fa il suo ingresso alla Casa Bianca per incontrare il neo-eletto presidente americano, Donald Trump.
La Crimea è sotto il controllo russo da ormai tre anni e Poroshenko sa che questa è la sua più grande occasione per ottenere dagli USA ciò che Obama non gli ha dato per il timore di alimentare un’escalation: i temibili Javelin.
Fiona Hill, consigliere di Trump per la Russia, ricorda: “Potevi vedere che Poroshenko stava letteralmente grondando di sudore, era molto nervoso. Non dimenticherò mai l’espressione del suo volto mentre avanzava verso l’ufficio, piena di trepidazione, c’era molto in gioco“.
E cosa disse Poroshenko appena entrato nello Studio Ovale? “Signor Presidente, armi letali. Abbiamo bisogno di armi letali. (…) Uscii con la promessa del Presidente Trump che ci avrebbe dato i Javelin. Sulla mia schiena potevi vedere le ali. Quello fu un grande giorno“. Quello sì, ma i successivi meno.
Trump infatti non ha ancora firmato l’accordo con l’Ucraina quando, due settimane più tardi, si presenta al vertice G20 di Amburgo. È lì che ha luogo il primo faccia a faccia con Vladimir Putin.
Il presidente russo, lontano dai riflettori, avvisa Trump: “Se rifornisci gli ucraini di armi, loro te ne chiederanno di più“. Washington decide di farsi un’idea della situazione sul campo. E per farlo si affida Kurt Volker, suo inviato speciale in Ucraina. È lui, al ritorno in America, a dire a Donald Trump: “Da un punto di vista morale, difensivo e diplomatico: devi dargli queste armi“. Anche l’allora Consigliere per la Sicurezza Nazionale USA, H.R. McMaster, perora la causa di Kyiv: “Dissi a Trump: ‘Penso che la Russia abbia invaso l’Ucraina nel 2014 perché Putin ha pensato: ‘Posso farla franca. Gli americani non faranno niente’. Credo che la fornitura di capacità difensive all’Ucraina sia importante per stabilire, o ristabilire, una deterrenza nei confronti della Russa’. Trump fu d’accordo“.
Putin gonfia il petto, mostra i muscoli, e anche i missili che a suo dire non possono essere intercettati da nessun sistema di difesa al mondo. Sono parole, certo. Ma nel giro di qualche giorno seguono i primi fatti. Al numero 10 di Downing Street, in quei giorni, risiede Theresa May. Il primo ministro britannico racconta: “Il mio segretario personale mi disse di questa coppia colta da malore su una panchina del parco a Salisbury. (…) Divenne chiaro abbastanza rapidamente che si trattava dell’uso di un’arma chimica. Un agente nervino”. L’ex spia russa Sergej Skripal e la figlia Julia sono stati avvelenati.
Mark Sedwill, Consigliere per la Sicurezza Nazionale del Regno Unito, ricostruisce l’accaduto: “Appena identificammo le vittime, capimmo che probabilmente aveva a che fare con i russi. L’arma chimica che era sta utilizzata, il Novichok, era stata sviluppata proprio nel periodo dell’Unione Sovietica. Il nostro principale sospettato, se così si può dire, fu lo Stato russo“.
Mentre la Russia, seguendo il suo copione classico, respinge ogni accusa, a Londra c’è chi rischia di perdere il controllo della situazione. Gavin Barwell, capo dello staff di Theresa May, ricorda: “Abbiamo discusso di un caposaldo fondamentale, se così si può dire, dell’alleanza NATO, quello per cui se un membro dell’alleanza viene attaccato, in base all’articolo 5 può essenzialmente chiedere una risposta da parte di tutti gli alleati della NATO“. Ma qualcuno sussurra all’orecchio del primo ministro, che la risposta potrebbe essere sproporzionata. D’altronde l’unica volta in cui l’Articolo 5 è stato utilizzato è per gli attacchi dell’11 settembre.
Si sceglie allora un’altra tattica: l’espulsione di diplomatici e funzionari dell’intelligence di Mosca. Eppure quando Theresa May telefona a Donald Trump per chiedere all’America di schierarsi dalla sua parte, la risposta non è quella che si sarebbe aspettata di ricevere. Londra deve lottare non poco, per ottenere ciò che vuole. Barwell spiega: “Il tono di Trump era tipo: “Beh, vai a chiedere agli europei, fai in modo che facciano qualcosa. Se loro faranno qualcosa, cosa di cui dubito fortemente, allora io farò qualcosa“. È solo il primo di una lunga serie di episodi in cui Putin scommette sulla mancata compattezza dell’Occidente.
Forse però per comprendere davvero l’opinione di Vladimir Putin sugli Stati Uniti bisogna citare le parole pronunciate dal presidente russo nell’incontro al Cremlino con John Bolton, all’epoca consigliere per la sicurezza nazionale USA.
Donald Trump ha annunciato a sorpresa la decisione di ritirare gli USA dal trattato sul controllo degli armamenti INF, quello siglato l’8 dicembre 1987 da Ronald Reagan e Michail Gorbačëv e considerato la fine della Guerra Fredda.
Davanti ai giornalisti Trump afferma che la Russia non ne rispetta i dettami, quindi non ha senso che lo facciano solo gli USA. Ebbene, la risposta di Putin al suo emissario non si fa attendere: “Pensavo che sul grande simbolo degli Stati Uniti, l’aquila tenesse rami di ulivo in uno dei suoi artigli. Sembra invece che la vostra aquila abbia mangiato tutti gli ulivi e lasciato solo le frecce“.
No, quella di invadere l’Ucraina non è stata una decisione dettata dall’emotività, ma un piano a cui Vladimir Putin ha lavorato per mesi, probabilmente anni. Forse l’impresa era allo studio già nella primavera 2021 quando, con la scusa di esercitazioni congiunte con la Bielorussia, Putin inizia ad ammassare truppe al confine con l’Ucraina. Il segretario alla Difesa del Regno Unito, Ben Wallace, è tra i primi a capire che qualcosa non va: “Per me era l’inizio di qualcosa di molto preoccupante. Scrissi al primo mininistro“, dice oggi.
E Boris Johnson conferma: “Ben Wallace venne da me con una lettera, una lettera segreta. In sostanza, si trattava di un’argomentazione a favore dell’aumento del nostro sostegno militare all’Ucraina. Gli risposi: ‘Facciamo così. Manteniamo il passo con gli americani per quanto possibile’. Gli americani erano pronti, penso, a fornire i Javelins e altro, così noi mettemmo a disposizione i famosi NLAW, missili anticarro fatti a Belfast“.
Arriva l’estate: Biden incontra Putin a Ginevra, ha la sensazione che il presidente russo non sia interessato ad un conflitto, ma a settembre le informazioni raccolte dagli Stati Uniti dicono altro.
Bill Burns, direttore della CIA, lo conferma: “Avevo osservato che Putin era sempre più preda di una miscela infiammabile di rancore e ambizione. Avevamo iniziato a mettere insieme un quadro piuttosto chiaro e preoccupante della pianificazione militare russa. Ero arrivato a credere che il presidente Putin fosse seriamente intenzionato a lanciare una nuova grande invasione dell’Ucraina“.
È il 2 novembre 2021 quando lo stesso Burns vola a Mosca. Lo manda Biden, per parlare direttamente con Putin, ma lo “zar” si è messo in isolamento in quel di Sochi, per sfuggire all’ondata di Covid che travolge la Russia: “La mia conversazione con lui è avvenuta tramite un telefono protetto, da un ufficio del Cremlino“, racconta il numero uno della Cia. “Sono stato molto diretto nell’esporre il messaggio che il Presidente Biden mi aveva chiesto di trasmettere: ‘Sappiamo cosa sta facendo e pagherà un prezzo molto alto se lancerà una simile invasione’. Il Presidente Putin ascoltò tutto questo senza sforzarsi di negare che questa pianificazione fosse in corso. Fece una serie di lamentele sull’Ucraina e sull’Occidente, e sui modi in cui riteneva che i leader occidentali, compresi gli Stati Uniti, non avessero prestato attenzione alle preoccupazioni della Russia nel corso degli anni. Ero preoccupato prima di arrivare a Mosca. E lo ero ancora di più dopo la partenza“.
Boris Johnson non abbandona la via diplomatica. Cerca di portare Putin a ragionare investendo anche in qualche lusinga: “Ho parlato con lui. (…) Ho iniziato con un lungo preambolo su come i nostri due Paesi abbiano combattuto insieme contro il fascismo, su come siano stati parte integrante della sconfitta del nazismo. E sapete, tutto questo gli è piaciuto. Ma poi ha continuato a dire: ‘Dovete escludere l’adesione dell’Ucraina alla Nato’. Gli ho risposto: ‘Beh, non possiamo escludere l’adesione alla Nato. È un Paese libero’. È stato piuttosto allarmante, sapete, che non si fosse minimamente mosso dalle sue posizioni“.