Aprile 22, 2023

“Io sono il Führer, io sono il re”. Follia ed epica di Boris Johnson. Faide e retroscena della lotta di potere tra Dominic Cummings e Carrie Symonds

Io sono il Führer. Io sono il re che prende le decisioni“.

Vittima o carnefice? Fuoriclasse o incompetente? Uomo del destino o mediocre baciato dalla dea Fortuna? L’enigma non sarà sciolto neanche oggi, nemmeno dopo questo articolo. Boris Johnson è e resterà un mistero fino all’ultimo istante che gli sarà dato di vivere. Il populista brexiter e il fervente sostenitore di Kyiv. Il demagogo e lo studioso dei classici. Il leader imbattuto alle elezioni e quello più odiato del Regno Unito.

Male e Bene, Bene e Male, sono da sempre forze in competizione nelle stanze del potere. C’è chi prova a dominarle, chi nel tentativo di giocarle a suo vantaggio ne finisce divorato. E infine chi, da entrambe, risulta posseduto: alla mercé di se stesso, dei propri demoni, di umanissime debolezze, di irresistibili ambizioni. Ma se il rebus attorno al primo ministro più atipico che il Regno Unito abbia mai avuto è destinato a non essere svelato, l’estratto del libro di prossima uscita “Johnson at 10 – The Inside Story” pubblicato oggi dal Times di Londra è comunque un passo fondamentale per chiunque abbia voglia di indagare sulle dinamiche andate in scena negli ultimi anni a Downing Street; per chi voglia intraprendere un viaggio fatto di tranelli e giravolte, di gioie e dolori; per chi voglia abbeverarsi di un racconto da taverna ma pure degno di una corte reale. I rischi sono principalmente due: uscirne stravolti, rischiare di sviluppare dipendenza.

Dominic Cummings: lo stratega

Se le “sliding doors” nella vita ed in politica esistono – ed esistono – la traiettoria di Boris Johnson cambia direzione il 24 luglio 2019, il giorno in cui Dominic Cummings, stratega considerato dai più “l’architetto della Brexit“, fa il suo ingresso a Downing Street nelle vesti di consigliere politico del primo ministro. Caso strano: quel giorno BoJo prova distintamente quello che qualcuno definirebbe un “presentimento”. Al suo capo di gabinetto, Mark Sedwill, nell’annunciare la nuova nomina confida: “Probabilmente finirà in lacrime, ma ora ho bisogno di lui“. Se sia sesto senso o intuito politico non è chiaro. Lo è che ha perfettamente ragione.

La luna di miele dura poco. L’impatto di Cummings al N°10 è dirompente. La sensazione di chi osserva da vicino la dinamica del rapporto fra il primo ministro e il suo consigliere speciale è la seguente: Cummings è in grado di manipolare la psicologia di Johnson. Ogni volta che Boris finisce in preda al panico, l’altro lo ricarica agitando lo spauracchio dello strapiombo: “Non c’è altra soluzione. Se non fai questo, sarai il primo ministro con la carica più breve della storia“. Come si motiva un leader? Ricordandogli che i suoi rivali – uno su tutti, David Cameron – non attendono altro che il suo fallimento. È così che Johnson riattiva la modalità di combattimento: “Gliela farò vedere io a quegli st…“. Sorvoliamo.

Fra alti e bassi la convivenza procede senza irremediabili scossoni fino alle elezioni generali del 2019. Il 12 dicembre, però, si materializza il sogno di una vita: Boris Johnson e il Conservative Party trionfano, abbattono il “red wall”, si aggiudicano seggi laburisti da più di 100 anni, si regalano perfino lo scalpo di Tony Blair, vincendo a casa sua. Ed è proprio in questo istante, nell’esatto momento in cui raggiunge il vertice, che inizia l’inevitabile caduta di BoJo. Il primo ministro è convinto di una cosa: il successo è suo, molto più che del Partito. Cummings la pensa diversamente. Lui è lo stratega, lui è l’analista con i sondaggi tra le mani: la popolarità di Johnson è stato un fattore, certo, ma minore. Agli amici confida, fra il serio e il faceto: “Terrò io il discorso della vittoria. Ho conquistato 14 milioni di voti. Mi libererò del Cancelliere dello Scacchiere“. Ma chi conosce Dominic Cummings rileva una punta di amarezza la sera stessa della vittoria. Mentre tutti brindano ad un successo storico, lo stratega capisce che tutto è già diverso, mai più sarà lo stesso. Non adesso che Johnson “non avrà più bisogno di noi“.

La gestione del post-vittoria è tradizionalmente una delle sfide più complesse. Johnson viene accusato di non riuscire a smaltire la sbornia elettorale, di non saper approfittare del periodo di luna di miele con l’elettorato per investire su scelte tanto impopolari quanto necessarie. È in questo contesto di autocompiacimento che lo stratega comincia a sgomitare in maniera più insistente, mettendo nel mirino – lo aveva detto – il Cancelliere dello Scacchiere, Sajid Javid.

I motivi che fanno di Javid l’obiettivo perfetto per Cummings sono principalmente due: quando Johnson lo indica come titolare dei conti, nel luglio 2019, per ragioni prettamente temporali non ha potuto dire la sua in merito, e questo lo rende illegittimo ai suoi occhi. Ma c’è dell’altro. Javid non solo vive accanto a Boris Johnson, condizione che gli consente di visitare il primo ministro anche nei fine settimana in sua assenza, ma è anche grande amico di Carrie Symonds, l’influente compagna di Boris Johnson, che già da qualche mese ha cominciato a lamentarsi dei modi di fare arroganti dello stratega.

Paradigmatico della dinamica tossica perpetrata da Cummings è quanto accade nell’ufficio di BoJo il giorno in cui il primo ministro – su imbeccata del consigliere – comunica a Javid la necessità di rinunciare a tutti i suoi consiglieri speciali per fare spazio ai nuovi indicati, indovinate un po’, dal solito Dominic. Secondo il Times, la conversazione si svolge più o meno così:

– Johnson: “Saj, stai facendo un ottimo lavoro. Mi piace quello che stai facendo. Voglio che tu continui. Voglio che il numero 10 e il numero 11 lavorino insieme, con consiglieri speciali comuni. Vorrei che tu e Dom li sceglieste insieme“.

– Javid: “Che ne sarà dei miei sei consiglieri speciali?“.

– Johnson: “Temo che dovranno andarsene tutti, Saj“.

– Javid: “Ma hanno tutti lavorato lealmente per il partito. Sono tutte brave persone“.

– Johnson: “Ah.”

Javid si ferma, pensa, attacca: “Non sono affatto contento“.

Boris insiste: “Voglio che tu lo faccia. Per favore, accetta. Dom lavorerà con te. So che lo farà“.

L’altro non si smuove. BoJo, esasperato, commette il passo falso: “Saj, i tuoi consiglieri sono solo persone“.

Javid si indigna: “No, non lo sono. Sono la nostra gente“.

Dopo quella che viene definita dai presenti come “un’enorme litigata“, Javid esce dal portone nero del N°10, si dirige verso i giornalisti e annuncia le sue dimissioni.

La sera stessa, Boris alza la cornetta: “Senti, Saj, non posso credere che sia successo“. Chiede scusa, gli dice che vuole vederlo tornare al governo. “Ti riavremo con noi, Saj“, promette. A distanza di tempo c’è chi si domanda: Cummings ha fatto credere a Johnson che Javid non si sarebbe dimesso? Molti dei presenti ritengono che Boris sia rimasto scioccato dal suo passo indietro. Chiamano in causa la sua scarsa empatia: “Non sempre comprende i sentimenti umani, quindi non ha previsto che l’orgoglio di Saj non gli avrebbe mai permesso di mettere da parte l’umiliazione“.

Questa è probabilmente la prima volta che il dubbio si fa strada: siamo dinanzi ad un “sovrano” vittima del suo “primo cavaliere” o c’è un ragionamento machiavellico dietro la mossa di Johnson. Cummings non ha dubbi: dice di avere deliberatamente “ingannato” Boris per far fuori Javid. Ma il primo ministro, avvisa un altro consigliere a conoscenza della questione, è pienamente consapevole che Javid non può accettare le condizioni del suo stratega. Di più: è lui ad usare Cummings come parafulmini. Così potrà dire alla compagna: “Non sono stato io a licenziarlo, si è dimesso solo per colpa di Dom“.

Il ricovero di Johnson in ospedale per Covid fa sì che Cummings stringa ancora di più la sua presa a Downing Street. Ministri e funzionari sono categoricamente istruiti. “Oh, non disturbatelo con questo” e “non ditelo al primo ministro” sono ritornelli che tutti conoscono a memoria. Vige la seguente spartizione: un terzo del personale riferisce a Cummings, un terzo al direttore delle comunicazioni, Lee Cain, ed un terzo direttamente a Johnson. Ma quest’ultimo gruppo si rende conto di essere il meno influente. Un funzionario spiega il metodo di Boris: il primo ministro dice “tre cose diverse nello stesso giorno a tre gruppi diversi di persone, e poi nega di aver cambiato idea o che le posizioni siano reciprocamente in contraddizione“. Ma se ancora qualcuno nutre dubbi sul fatto che possa esserci una strategia del caos da parte di Johnson, le persone che lo osservano da vicino respingono questa idea. Notano che BoJo ha sempre più paura di essere scavalcato. È in frangenti come questi, secondo il racconto di un consigliere speciale, che un Johnson frustrato ripete quasi a sé stesso: “Io sono destinato ad avere il controllo. Io sono il Führer. Sono il re che prende le decisioni“. Ma ogni re che si rispetti ha la sua regina. E che regina…

Carrie Symonds: le liti consegnate all’epica, la guerra a Dominic Cummings, il suo posto nella storia

È Carrie Symonds l’altro lato della luna di Boris Johnson. La donna cresciuta a pane e politica agli occhi della stampa è per anni la sfasciafamiglie, l’arrivista che vuole approfittare delle fortune del politico più amato (e odiato) del Paese. Le loro liti appartengono all’epica.

Nessuno può dimenticare la volta in cui i vicini di casa, preoccupati dalle urla provenienti dall’abitazione di Carrie, chiamano la polizia. Sentono Boris disperato, urla alla compagna: “Lascia il mio dannato computer portatile“. Poi lo schianto. Rumore di piatti infranti. Lei che comunica perentoria: “Esci immediatamente dal mio appartamento!“. Possiamo sentire la frase sillabata. Lui che risponde di no. Cos’hai fatto questa volta, BoJo? La verità: ha versato del vino rosso sul divano. Si becca i suoi insulti: “Non te ne frega nulla, perché sei viziato!“.

È lei, col suo temperamento, il suo istinto femminile, a rendersi conto che Cummings non è più una risoarsa, ma un problema. La sua fazione si mette sul piede di guera. Alcuni la trovano “difficile, preziosa, spaventosa”, altri sottolineano l’inedita dinamica tra governante e consorte. Niente a che vedere con Denis Thatcher, Sarah Brown, Philip May: “B…

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