Maggio 2, 2023

ESCLUSIVO! Così il governo Conte abbandonò gli italiani in Venezuela. Retroscena: gli allarmi dell’intelligence, i legami maduristi nel M5s, l’ascesa e il declino di Juan Guaidó

Quando davvero l’ultima parola sulla vicenda Venezuela sarà pronunciata, Juan Guaidó non potrà rimproverarsi di non averle tentate proprio tutte per spodestare Nicolas Maduro.

Leggi Maracaibo, e cosa pensi? “Mare forza nove“, ovviamente. Ma per il presidente condannato dalla Storia ad un perenne “interim” un accento sulla vocale sbagliata – quello che riporta alla città costiera di Maracàibo – più che un tormentone rappresenta e sempre rappresenterà un tormento. Come sarebbero andate le cose se quel giorno di maggio i 300 mercenari armati fino ai denti promessi dall’ex berretto verde Jordan Goudreau fossero realmente riusciti nell’impresa di catturare o rimuovere Nicolas Maduro, come da accordi?

A bordo di due pescherecci stracolmi di fucili, ricetrasmittenti, munizioni, eccola, la compagnia di (soli 60) uomini con poco o nulla da perdere. Dalla Colombia alla volta della costa caraibica del Venezuela: si parte! Poche miglia nautiche e già arriva l’indizio sull’esito della missione: mal di mare e vomito a bordo per molti. Non promette bene, oscuro presagio, mentre lo stesso Goudreau, a blitz in corso, tira fuori lo smartphone e avvia una diretta sui social. Dice di essere a capo di un’operazione militare che rovescerà il dittatore. Cosa potrebbe mai andare storto?

Le forze di difesa venezuelane attendono al varco i mercenari (e non potrebbe essere altrimenti). Una volta avvistati, ingaggiano una sparatoria di tre quarti d’ora Alcuni vengono uccisi, altri catturati, altri ancora giustiziati sul posto. È un naufragio, in tutti i sensi, ma soprattutto del tentativo di deporre Maduro: non il primo, neanche l’ultimo.

Nella definizione del dittatore di Caracas, Juan Guaidó non è altro che “un muchacho che gioca a fare politica“, ma quando il presidente dell’Assemblea Nazionale – dopo le elezioni farsa del 2018 – si autoproclama presidente ad interim del Paese, quando viene riconosciuto come tale dagli Stati Uniti di Donald Trump, non sono pochi a pensare che Nicolas Maduro abbia le ore contate.

La strategia di “massima pressione” messa a punto alla Casa Bianca è chiara: strangolare il regime venezuelano con sanzioni senza precedenti, portare la popolazione a sollevarsi, rimuovere l’autocrate. Ed in effetti a scendere in strada sono ogni giorno, nonostante la cruenta repressione della polizia madurista, sono in tanti. Ma Maduro, che del predecessore Hugo Chavez non ha ereditato il carisma ma di certo l’acume, ha studiato con attenzione i precedenti di leader spodestati attraverso dei colpi di stato.

È per questo che negli anni ha concesso alla leadership militare privilegi che la rendono impermeabile alle tentazioni provenienti dall’esterno ed insensibile alle istanze della società civile. Così, quando Guaidó lancia l’Operazione Libertà, invocando il sostegno dell’esercito, quest’ultimo si schiera in larga parte a supporto di Maduro. C’è un momento, fra tanti frangenti carichi di scelte decisive per le sorti di un popolo, che risulta più drammatico di altri: è quello che si registra quando l’opposizione cerca di far passare, attraverso i ponti di confine, gli aiuti umanitari destinati ad un Paese stremato. In quel preciso istante i militari venezuelani potrebbero dare il via alla rivoluzione. E invece sbarrano la strada, usano gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti, danno fuoco ai camion che portano gli aiuti, sparano sulla folla. Sono scene di un dramma. A Roma, nel frattempo, si aggiunge il prefisso “psico”. Proprio in quelle ore c’è infatti chi lavora – si spera inconsapevolmente – per rendere l’Italia barzelletta d’Occidente.

Mentre i tradizionali alleati nostrani, dagli Stati Uniti ai maggiori Paesi UE, si schierano senza titubanze dalla parte di Juan Guaidó, il governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte dà infatti vita ad un’imbarazzante esercizio di equilibrismo diplomatico e geopolitico fine a sé stesso. È l’Italia, nella riunione informale dei ministri degli Esteri che il 31 gennaio 2019 ha luogo in quel di Bucarest, a bloccare il rilascio di una dichiarazione comune dei Paesi membri dell’Unione. Perché?

È ancora l’Italia, quattro giorni dopo, ad opporsi alla dichiarazione con cui l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, Federica Mogherini, intende reiterare il “sostegno” del Vecchio Continente all’Assemblea nazionale venezuelana e al suo presidente, ponendo l’accento sul fatto che alcuni Stati, sulla base delle loro “prerogative“, hanno già riconosciuto Juan Guaidó come leader legittimo del Paese. Alle 10:00 del mattino Roma chiede più tempo per rivedere l’accordo. Alle 13:00 si tira indietro definitvamente indietro. Perché?

E sono italiani, in particolare del Movimento 5 Stelle, della Lega, e in alcuni casi eletti nel Partito Democratico (Brando Benifei, Goffredo Bettini, Renata Briano, Andrea Cozzolino, Elena Gentile, Sergio Cofferati, con quest’ultimo ad aggravare la sua posizione: “L’astensione è stato un errore tecnico, avrei votato contro“) ad astenersi sulla risoluzione con cui l’Europarlamento, il primo febbraio del 2019, riconosce Guaidó presidente esortando i Paesi Ue a fare altrettanto. Perché?

Per rispondere a questi quesiti, per capire cosa succede veramente in quelle giornate frenetiche nel governo italiano, occorre consultare chi partecipa alle trattative a porte chiuse, andare in profondità. Prima, però, è necessaria una premessa. Sì, perché il Venezuela non è mai stato per l’Italia un luogo qualunque. La storia narra che sia stato addirittura uno di noi, un tale chiamato Amerigo Vespucci, a battezzare il Paese. Scorgendo le tipiche abitazioni sulle palafitte, la sua mente tornò a Venezia, ai palazzi affacciati sui canali. Accade così che in “Venezziola“, la piccola Venezia, si stabiliscano nel corso dei secoli migliaia e migliaia di emigrati dalla Penisola. Ad invitarli è la stessa classe dirigente del Paese sudamericano, che ne apprezza l’intraprendenza, l’ingegno, la laboriosità. Storico l’appello del presidente Rómulo Gallegos, nel suo discorso di insediamento nel 1948, intento a chiedere “braccia straniere, il sangue straniero, che coadiuvi a rafforzare il deficitario materiale umano locale”. E gli italiani non si fanno attendere. Tra il 1949 e il 1960 la politica delle “porte aperte” promossa dal presidente Marcos Pérez Jiménez rende il Venezuela una delle mete preferite dell’emigrazione italiana. I “paisanos” costruiscono il tessuto industriale del Paese, formano il ceto medio e benestante venezuelano. Uomini per la maggior parte, si integrano nella società locale sposando le donne del luogo. Ma la loro non è da intendersi come assimilazione: troppo forte il legame con la terra natìa. Non è un caso che Caracas sia in tutto il mondo seconda solo alla Penisola per consumo di pasta. Questione sì di palato, ma soprattutto di sangue che scorre nelle vene, di cuore che batte anche al di là dell’oceano.

È alle 150mila persone in possesso di passaporto italiano, al milione e mezzo di paisanos – considerando seconda e terza generazione – presenti in loco che il governo di Roma, all’inizio del 2019, volta clamorosamente le spalle.

Nei giorni in cui il Paese appare sull’orlo di una guerra civile, i massimi rappresentanti della comunità italiana in Venezuela si attivano per manifestare alla Farnesina la loro posizione: sono senza dubbi dalla parte opposta rispetto al regime di Maduro. Ci hanno provato a farsi partecipi della svolta chavista, eccome se lo hanno fatto, ma il socialismo di matrice bolivariana di cui si è ammantato il regime è in realtà l’abito buono per dissimulare una svolta che è di stampo razziale. Il primo presidente amerindo vede infatti gli italiani non come un problema in quanto tali, ma poiché bianchi, europei. Ma se Roma all’inizio della seconda decade del Terzo Millennio chiede di pazientare, gli italiani di Venezuela questa volta pretendono sostegno. Lo staff di Juan Guaidó, del resto, è infarcito di collaboratori con chiare origini del Belpaese. Legame che in aggiunta alla questione razziale di cui sopra dovrebbe suggerire una facile scelta di campo per il governo gialloverde. Che però tarda ad arrivare.

Giuseppe Conte è nella fase Conte I, in tutti i sensi.

Il presidente del Consiglio, stretto fra i due vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini, appare ad occhi esterni come il cassico vaso di coccio tra due vasi di ferro. Per evitare di andare in frantumi è costretto ogni giorno a complicati equilibrismi rispetto ai quali, gli va riconosciuto, mette in mostra un certo talento. Eppure ci sono volte in cui l’artificio retorico, per giustificare l’ignavia geopolitica, non basta.

Lo stesso Guaidó esprime in una lettera indirizzata al nostro Paese il suo “profondo sconcerto” per la linea italiana. “Non capiamo – scrive – perché il Paese europeo a noi più vicino non prenda una posizione chiara e netta contro il dittatore Maduro“. Non è il solo a non capire. Ma forse non è a conoscenza che il partito di maggioranza relativa, il Movimento 5 Stelle, ha nel Venezuela il suo tallone d’achille. Forse non sa che il “pasionario” grillino, Alessandro Di Battista, ama l’Alba, l’Alleanza bolivariana per le Americhe, al punto da proporla come alternativa al modello italiano ed europeo. E chissà se è stato informato che soltanto un paio di anni prima, fra un convegno ed una perorazione rivoluzionaria, una delegazione composta da tre grillini si è recata in Venezuela a rendere omaggio al compianto (da loro) Chavez. Sono Manlio Di Stefano, nel frattempo asceso al ruolo di sottosegretario agli Esteri, Ornella Bertorotta e Vito Petrocelli. Quest’ultimo, nei giorni dell’invasione russa dell’Ucraina, in qualità di presidente della Commissione Esteri del Senato si meriterà – da parte dei colleghi – l’appellativo di “compagno Petrov” per la sua vicinanza (eufemismo) alla posizione di Mosca. Durante la crisi venezuelana, forse, è riconoscibile come “compagno Pedro“.

Al chiuso della residenza dell’ambasciatore italiano a Caracas, Silvio Mignano, i grillini faticano ad intercettare le preoccupazione dei connazionali. A chi si dice preoccupato per i sequestri dei dei propri familiari e le angherie subite per mano del regime, i grillini replicano che insomma, “abbiate un po’ d’empatia, pure in Italia col governo Renzi si sta male“. Sipario.

Ma con la svolta di Guaidó non è più tempo di indugi. Eppure Conte non sembra intenzionato a smuoversi dalla sua (solo apparente) neutralità. Come si faccia a non capire che il mancato riconoscimento di Guaidó presidente significhi in quella fase sostegno a Maduro non è chiaro. Una delegazione di rappresentanti del leader dell’opposizione venezuelana prende contatti con Matteo Salvini. Gli emissari del presidente ad interim, dei parlamentari, incontrano il ministro dell’Interno e i suoi al Viminale. Ed è lo stesso leader della Lega a sentire al telefo…

17 commenti su “ESCLUSIVO! Così il governo Conte abbandonò gli italiani in Venezuela. Retroscena: gli allarmi dell’intelligence, i legami maduristi nel M5s, l’ascesa e il declino di Juan Guaidó

  1. Se ti dico che avevo rimosso tutto, ci credi? Poi rileggendoti mi son ricordata delle sensazioni di vergogna e stupore che provavo. Non capivo le motivazioni, non conoscevo le posizioni dei 5s. Grazie per aver spiegato.

  2. Un motivo in più per essere soddisfatto di essermi iscritto a questo blog. Questi approfondimenti sono veramente interessanti: nello specifico, ora capisco perché ho tanti conterranei che vengono da lì. Bravo

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