Maggio 11, 2023

Erdogan, storia (e futuro) di un Sultano – 1^ PARTE

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Da 20 anni regna sulla Turchia. E non è un caso che lo chiamino il Sultano. Ma esiste forse una forma di presunzione nel tentativo di definire Recep Tayyip Erdogan. Chi può dire con certezza chi sia l’uomo che ha di fronte, guardandolo negli occhi? “Nessuno può restare al potere così a lungo, senza saper fare il suo mestiere“, dice qualcuno. Altri aggiungono: “È un giocatore d’azzardo della politica” e un “genio nel capire del suo Paese“. Sì, ma Erdogan è anche un uomo spietato, un leader autoritario, un “dittatore” (do you remember Super Mario?).

Solo una cosa è certa: quando per un personaggio simile si avvicina il momento del dunque, nessuno scenario può essere escluso. Davvero nessuno.

A pochi giorni dalle elezioni che segneranno il futuro della Turchia per i decenni a venire, il bivio che attende il Sultano non può essere ridotto a vittoria o sconfitta. In gioco c’è molto di più: potere o polvere? Storia o prigionia? Vita o morte politica?

Sarà la cronaca delle prossime ore a stabilire se si tratterà o meno di un’esasperazione degli eventi, di una drammatizzazione immotivata. Ma che Erdogan non possa tornare a vestire i panni del “semplice” cittadino di Istanbul è ovvio a chiunque abbia conosciuto l’ex sindaco della capitale da vicino, o studiato la sua irresistibile ascesa.

C’è chi sostiene che l’identificazione tra Erdogan e Turchia sia tale che il suo impero andrà in macerie alla maniera delle migliaia di case abbattute dalla devastante furia del terremoto del 6 febbraio. Dopotutto non ha sempre detto di aver costruito la moderna Turchia? Così, se gli edifici non reggono l’urto, se gli aiuti tardano ad arrivare, se milioni di persone con le lacrime agli occhi oggi si domandano: “Dov’è lo Stato?“, allora è possibile porsi pure un altro quesito. Eccolo: che il Destino abbia infine voltato le spalle ad uno dei suoi figli prediletti?

Per capire quanto decisiva sia la risoluzione del rebus di cui sopra bisogna risalire alle origini del Sultano. Da dove arriva Erdogan? Risposta: da uno dei quartieri più poveri di tutta Istanbul. Sono migranti provenienti dalla zona del Mar Nero, gli Erdogan. E non è un dettaglio. Gente dura, anche attaccabrighe, non esattamente i tipi che vorresti incontrare in un vicolo buio. Papà Ahmet, in particolare, è la figura fondamentale nella formazione del giovane Recep.

L’uomo è un marinaio, anzi, un capitano della Guardia costiera turca. Racconterà Erdogan: la mia non è stata un’infanzia facile. E d’altronde difficilmente potrebbe essere altrimenti, con un genitore così severo, manesco, autoritario. Il ragazzo, ad esempio, vuole giocare a pallone. E il talento lo assiste al punto da attirare l’attenzione del Fenerbahce, la più importante squadra di Istanbul, e della Turchia, insieme ai rivali del Galatasaray. Ma papà Ahmet non ammette deviazioni rispetto al piano che ha immaginato per il figlio. Recep Tayyip studierà, lo farà in una scuola religiosa, sarà un bravo ragazzo su cui la famiglia potrà fare affidamento.

Ma nella Turchia secolarista di quegli anni è proprio la fede a rendere Erdogan e quelli come lui cittadini “di serie B”. È questo continuo sentirsi ai margini della società, questo perenne senso di ingiustizia sperimentato sulla propria pelle, che convince il giovane Erdogan, a metà degli anni Settanta, ad unirsi al Partito della Salvezza Nazionale, di cui diventa presto segretario giovanile. È una formazione islamista. E pure questo non è un dettaglio in un Paese come la Turchia, che la geografia ha reso ponte naturale tra Occidente ed Oriente.

Punto di equilibrio sono i militari. Chiunque entri in politica, in Turchia, ha negli occhi e nella mente la foto in bianco e nero di Adnan Menderes, il primo ministro impiccato dalle forze armate turche con l’accusa di aver tradito i princìpi laici della Repubblica. Chi può avversare un potere simile?

Sono sempre i colpi di stato a scandire la storia del Paese, come a ricordare di volta in volta la “regola aurea” della politica turca: mai sfidare i militari.

L’anno della svolta, per Erdogan, è il 1994. Vuole diventare sindaco di Istanbul, una città sommersa dai rifiuti, priva di infrastrutture, alle prese con un traffico ingestibile. La notte del 27 marzo, con ben cinque candidati che arrivano in doppia cifra, all’aspirante Sultano basta il 25% dei consensi per compiere l’exploit, per mettersi in tasca le chiavi della città.

E la scelta dei cittadini dell’antica Bisanzio sembra quanto mai azzeccata. Non si tratta soltanto della sua efficacia come amministratore, della capacità di risolvere problemi, di intervenire con successo là dove altri hanno fallito prima di lui. Per dirla con le parole di Metin Külünk, suo grande alleato, Erdogan “è coraggioso, disciplinato, ha un tono di voce poetico, che è molto importante, crede in quello che fa“. Ci crede al punto che cambia il volto di Istanbul. Ed è proprio la consapevolezza diffusa che Istanbul sia una Turchia in miniatura, una prova del nove per chi ambisca un giorno a prendere le redini del Paese, a convincere tutti che un giorno non molto lontano quel sindaco così di successo rivestirà incarichi di maggiore prestigio.

Tutto vero, ma nessuno può immaginare gli ostacoli che Erdogan dovrà superare, la pazienza che dovrà dimostrare, l’acume e l’audacia che dovrà sfoggiare, per arrivare dove vuole.

L’esercito inizia infatti a vivere con profonda preoccupazione l’ascesa del rampante leader. I militari sostengono che la sua formazione politica sta violando i princìpi costituzionali della Turchia, sta portando la religione nella vita politica del Paese. Le forze armate emettono così un “memorandum” durissimo. L’effetto domino è tale da costringere il primo ministro Erbakan alle dimissioni e allo scioglimento del Partito del Benessere, nel quale Erdogan milita. È quello il primo momento verità della sua parabola. Recep diventa il volto e la voce delle proteste. Nessun disordine, no, ma forse qualcosa di ancora più pericoloso: milioni di persone che in tutta la Turchia si riconoscono in un racconto, quello riassunto nei versetti di un antico poema nazionale di epoca ottomana che il sindaco Erdogan decide di recitare nel corso di un comizio ad Istanbul:

Le moschee sono le nostre caserme.
Le cupole sono i nostri elmetti,
i minareti le nostre baionette
e i credenti sono i nostri soldati

Sono versi che gli valgono l’accusa di istigazione alla violenza religiosa. Erdogan finisce in arresto, sotto processo, costretto a dare le dimissioni da sindaco di Istanbul, condannato a 10 mesi di prigione. “Nessuno potrà impedire a Recep Tayyip Erdogan di servire questa nazione“, promette dopo la condanna. E c’è un’immagine in particolare che rinforza quell’impressione: è la marea umana che lo accompagna, passo dopo passo, dopo la prigionia. Sembra un bagno di folla dopo un’elezione vinta: Erdogan sorride, stringe mani, abbraccia persone. Poi da un palco improvvisato scandisce: “Dio vi benedica. E mi dia le vostre benedizioni“.

Erdogan ce l’ha fatta: è appena diventato un martire.

Erdogan sconta la sua pena, ma quando esce di prigione ha un enorme problema: la sua condanna gli impedisce di correre per la carica di primo ministro. Altro momento chiave. Forte di un enorme sostegno popolare, il piano di Erdogan è chiaro: formerà un nuovo partito, l’AKP, con questo vincerà le elezioni e, una volta al potere, modificherà le leggi che ora gli impediscono di governare. Per quanto ardito, il suo disegno va in porto.

La Turchia ora registra livelli record di crescita, la popolarità di Erdogan è alle stelle. Da Washington a Bruxelles, non c’è leader che non voglia avere a che fare con lui. Ma quando l’Unione Europea chiede un rafforzamento delle istituzioni democratiche per acconsentire all’ingresso della Turchia tra i Paesi membri, Erdogan comprende che quello è il momento giusto per diminuire l’influenza sulla vita politica dell’esercito, che non ha ancora abbandonato l’idea di estrometterlo dall’arena. Se ne ha la prova ne…

6 commenti su “Erdogan, storia (e futuro) di un Sultano – 1^ PARTE

  1. Ottimo articolo!

    Per scrupolosità, mi sento di segnalare che, in uno dei primi paragrafi, Erdogan è chiamato “sindaco della capitale”, mentre lui (come più volte ripetuto nell’articolo) fu sindaco di Istanbul, non Ankara.

    Keep up the good work!

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