Maggio 19, 2023

Retroscena Boris. La prima (e l’ultima) telefonata con Zelensky, l’ammirazione per Mario Draghi, la “nausea” verso Macron

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Sono le 4:00 del mattino a Londra. Le 4.00 del mattino del 24 febbraio 2022. Guto Harri sta dormendo, come buona parte dei suoi connazionali, ma il telefono che squilla con insistenza lo costringe a mettere da parte i propri sogni e a piombare in una realtà da incubo. Dall’altra parte della cornetta, come fose sveglio da giorni, in attesa soltanto di quella notizia, c’è l’addetto militare di Downing Street, un uomo che in una vita precedente ha guidato le forze speciali del Regno Unito. Sarà per questo che la sua voce è così calma. Sarà per questo che dice: “Lascio dormire il capo perché è cotto, ma devi sapere che le truppe russe hanno attraverato il confine. Stanno avanzando verso Kyiv. I nostri peggiori timori sono realtà“.

Il capo in questione è, ovviamente, Boris Johnson. Guto Harri lo conosce bene. Sono stati grandi amici, i due, compagni di studi in quel di Oxford. Ma ad accomunarli c’è dell’altro. Ed in particolare uno dei periodi più indimenticabili della carriera politica di BoJo, quello da sindaco di Londra.

Negli anni del primo mandato da mayor, quelli in cui lo scapigliato primo cittadino della City si fa (ri)conoscere in tutto il mondo per la sue politiche verdi, per la sua lotta senza quartiere al traffico londinese, per le grandi opere che restituiscono all’esterno l’irresistibile immagine dell’uomo del fare (e dell’apparire), Guto Harri è il suo portavoce, il capo della comunicazione.

Harri sa come maneggiare i giornalisti, è uno di loro, e pure Boris lo è, a dirla tutta, ma le loro vite non sono fatte per scorrere su binari paralleli. Si separano, si avvicinano, poi si incrociano e si fanno tutt’uno. Per poi ricominciare, non rigorosamente in quest’ordine. Quando BoJo, ad esempio, comprende che cavalcare la Brexit lo condurrà al numero 10 di Downing Street, Guto si mette di traverso, lo critica aspramente. E l’altro, da buon permaloso, se la lega al dito. Ma nel momento in cui il suo governo barcolla pericolosamente, travolto dagli scandali, è il numero di Guto che Boris compone. Sembra quasi di sentirlo: torna con me, Harri, monta a bordo di quest’ottovolante, non ti annoierai, non ci annoieremo. Noi due, come ai bei tempi. Che aspetti? E Harri non se lo fa ripetere. È il 6 febbraio 2022 quando comincia il lavoro. Forse in quel momento dà poco peso ai movimenti delle truppe russe al confine, non immagina che nel giro di pochi giorni diventerà testimone della Storia.

Così, quando arriva la telefonata che cambia il destino del Pianeta, nessuno meglio di Guto Harri conosce Boris Johnson. Nessuno più di lui sa che dinanzi ad un avvenimento di tale portata, il primo ministro vorrebbe essere buttato giù dal letto. “Sono stato altrettanto chiaro” con l’addetto militare: “‘Non lasciatelo dormire’, ho detto, ‘svegliatelo subito. Vorrà occuparsene in un nanosecondo‘”. Ha ragione: “Tempo cinque minuti, e Boris era al telefono con il presidente Zelensky e alcuni di noi stavano ascoltando“.

La descrizione di quella chiamata è da pelle d’oca: il presidente ucraino viene descritto “senza fiato“, “preoccupato“, ma allo stesso tempo “molto calmo, considerando ciò che stava accadendo. Era straziante, inquietante“. Guto racconta lo stupore di quei frangenti, la difficoltà di vedere il mondo che cambia sotto i propri occhi: “Non potevamo credere che stesse veramente accadendo. Una superpotenza che avanza verso un vicino che non ha fatto nulla per provocarla“. La prima reazione di Johnson è degna di nota, è quella di un leader, di un capo di governo, ma è anche molto “umana”: “Boris non avrebbe potuto essere più chiaro sul fatto che eravamo lì per aiutare l’Ucraina in qualsiasi modo possibile, utilizzando tutto ciò che potevamo dispiegare entro i limiti del ragionevole. Ma, in quel momento, credo che fosse una cosa da uomo a uomo, con lui che si immaginava in quel bunker nella sua capitale e le truppe straniere che avanzavano in quella città, la sua vita in pericolo“.

Harri riporta fedelmente i passaggi della telefonata fra i due leader: “Ricordo molto chiaramente che disse: ‘Stai bene? Stai bene, Volodymyr? Hai delle brave persone intorno a te? Sei al sicuro? C’è qualcosa che possiamo fare per proteggerti?’. E Zelensky: “Sto bene, ho gente in gamba con me, ma non si può mai sapere quando le forze speciali russe si aggirano per la tua città“.

A conferma che la realtà alle volte sa essere anche più spietata di un film, è quando Zelensky pronuncia la frase “spero solo che questa non sia l’ultima volta che ci sentiamo” che la comunicazione si interrompe.

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È in questo scenario di estrema tensione, per la consapevolezza delle conseguenze che una nuova guerra nel Vecchio Continente comporterà, che anche tra Alleati non mancano le scintille. Johnson è consapevole della forte dipendenza che i Paesi europei scontano nei confronti del gas russo. Il Nord Stream che parte dalla Russia e riscalda le case dei tedeschi diventa nella dizione johnsoniana il “blood stream“, il gasdotto del sangue. E che dire dell’Italia? È lo stesso Boris, qualche mese dopo aver lasciato Downing Street, a rivelare che gli italiani, enormemente dipendenti dagli idrocarburi russi, all’inizio semplicemente ci dissero che non sarebbero stati in grado di sostenere la nostra posizione“. Ma è sempre Guto Harri, in un’intervista concessa a Repubblica, a smentire la presunta conflittualità fra Boris Johnson e l’allora presidente del Consiglio, Mario Draghi: “…

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