Dicembre 12, 2019

Via col Regno

Da questa mattina, e fino a stanotte, nel Regno Unito si vota per le elezioni anticipate. Per la terza volta in 4 anni la politica d’Oltremanica chiede al suo popolo un mandato forte per governare. Esagerati? Magari sì. Ma viene spontaneo notare che in Italia per votare lo stesso numero di volte abbiamo impiegato 11 anni. Trova le differenze.

In passato è andata bene soltanto a David Cameron, ma poi sappiamo com’è finita: un referendum sulla Brexit ha modificato la curvatura della storia. Theresa May si è fidata nel 2017 dei sondaggi, intendeva sfruttare il “momentum” favorevole ai Conservatori, ma i sondaggi in Gran Bretagna per tradizione non sono affidabili come i nostri (sì, ogni tanto qualche merito ce lo prendiamo). E Theresa ha lanciato il suo personalissimo May-Day. Ora ci riprova Boris Johnson, l’ex sindaco di Londra semplicisticamente descritto dalla stampa main-stream come un surrogato di Donald Trump d’Oltremanica.

BoJo non è Trump. E nemmeno Salvini

Certo, la chioma bionda ribelle (The Donald è phonato, non scherziamo) potrebbe ingannare e suggerire presenza di indole da populista sovranista, un Salvini più grassoccio, una Le Pen al maschile con la fortuna di appartenere al partito giusto, piuttosto che alla spaventosa destra estremista. Ma non è così. Definizione perfetta di BoJo è stata data su “Il Foglio” da quella mente finissima che risponde al nome di Giuliano Ferrara, per cui Johnson “non è un Arancione, non è un Truce, non è della razza dei Bolsonaro dei Duterte degli Erdogan, e a rigore non è nemmeno un Putin dipendente. È un inglese di Eton, supercasta. Un conservatore brillante, con il lignaggio della sua specie tutto a posto, che ha scritto libri anche divertenti su Churchill, non pamphlet per la casa editrice Altaforte“.

Istrionico come Churchill, l’uomo che salvò l’Europa dai nazisti, scarsamente empatico, antipatico all’establishment, decisamente arrivista, poco telegenico, non avvezzo al confronto coi giornalisti. Ma BoJo possiede una cultura che molti dei sovranisti sopracitati sognano, un fiuto da animale politico di razza, il pedigree del perfetto conservatore. Le sue sorti politiche dipendono dal voto odierno. Ma in gioco c’è molto più del suo destino personale.

Perché questo è il secondo referendum Brexit

Il secondo referendum sulla Brexit è di fatto questo. Johnson è il solo ad aver puntato sul Leave, sulla conferma di quel voto inimmaginabile del 2016, sull’orgoglio della diversità britannica, sulla libertà dai vincoli brussellesi, in una frase: sulla nostalgia dell’impero. Per questo ha ripetuto in maniera quasi ossessiva il suo “Get Brexit done“, lo slogan che è diventato un tormentone. Come dire “facciamo Brexit“, usciamo da questo tunnel di accordi con l’Ue, poniamo fine agli estenuanti giochi parlamentari, e poi occupiamoci delle altre priorità del Paese, dei veri problemi della gente. Punta a prendere i britannici per sfiancamento BoJo, sul loro desiderio di farla finita, di andare avanti con gli occhi bendati, ma pur sempre avanti.

Perché BoJo può “non-vincere”

Nessuno dubita che stanotte il primo partito sia il suo, ma anche in un sistema maggioritario esasperato come il “first-past-the-post” – chi arriva primo in un collegio prende il seggio e saluti alla compagnia (il sogno proibito di Salvini) – è concreto il rischio di un “hung Parliament“, un Parlamento appeso, bloccato. Non tanto perché il laburista Jeremy Corbyn entusiasmi gli elettori, anzi (d’altronde individuarne i limiti è stato fin troppo semplice). Ma proprio perché è chiaro a tutti gli anti-Brexit che il voto di oggi è l’ultima chiamata. Non c’è possibilità di appello. Ecco allora fiorire come funghi siti che spiegano ai “remainers” come votare per fermare Johnson. Lo chiamano “tactical voting“. Lo ha riassunto bene Lorenzo Pregliasco su YouTrend: “La versione british del nostro “turarsi il naso”. Esempio concreto: se sono un LibDem anti-Brexit e voglio evitare a tutti i costi che nel mio collegio vinca il candidato Conservatore, può darsi che mi convenga turarmi il naso e votare Labour, perché avrei più chances che nel mio collegio non vincano i Tories“.

Quasi tutto si giocherà nei cosiddetti “marginal seats“, paragonabili agli “swing states” americani, collegi in bilico, molti dei quali appartenenti al cosiddetto “red wall“, il muro rosso, l’equivalente delle una-volta-roccaforti-rosse italiane.

Ogni mattone buttato giù avvicinerà il bambino che voleva diventare “il re del mondo” a quella leadership inseguita per una vita intera. E allontanerà, bisogna accettarlo, gli amici britannici dall’Europa. Nessun dubbio su questo: se fosse un film si chiamerebbe “Via col Regno”.

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