Settembre 28, 2020

“Segui i soldi”

Follow the money“, segui i soldi. Questa è la frase iconica di un film che ha fatto la storia e l’ha raccontata. “Tutti gli uomini del presidente“, anno 1976, è la pellicola che narra il dietro e il davanti le quinte dello scandalo Watergate che segnò la fine della presidenza di Richard Nixon. “Follow the money” è la frase pronunciata dalla “Gola Profonda” a Bob Woodward, il giornalista che insieme a Carl Bernstein si rese protagonista dello scoop che cambiò l’America. Quest’ultimo, diversi decenni dopo, incitò i suoi colleghi ad applicare su Donald Trump lo stesso principio che aveva portato al successo della loro inchiesta: sì, seguire i soldi. Quel Donald Trump che, ironia della sorte, nel settembre del 2016 utilizzò questa identica espressione per criticare Hillary Clinton e la sua fondazione. Lo stesso Donald Trump – sempre lui – che esattamente quattro anni dopo, ad un mese dalle elezioni più importanti della storia americana, rischia di essere incastrato da un’inchiesta del New York Times.

Follow the money“, seguite i soldi.

Trump l’evasore

Iniziamo col dire che il New York Times è il New York Times. Al di là dell’orientamento liberal, un quotidiano del genere non pubblica un’inchiesta senza essere sicuro al 100% della bontà del proprio lavoro. Il giornale sostiene di aver messo le mani sulle dichiarazioni dei redditi di Donald Trump dal 2000 al 2017. Ne emerge un quadro sconvolgente, anche per coloro che mettevano in conto da tempo un’evasione fiscale corposa del magnate newyorchese. Basti dire che nel 2016 e nel 2017 il biondo di Manhattan ha versato nelle casse federali 750 dollari l’anno. Milioni di americani, molto più poveri di lui, in queste ore potrebbero essere particolarmente nervosi. A maggior ragione pensando che in 10 dei quindici anni precedenti, Trump non ha pagato al fisco neanche un dollaro. Ma come ha fatto il presidente, a fronte di un reddito netto di 427,4 milioni di dollari fino al 2018, a sfuggire a quasi tutte le tasse sulla sua fortuna? Secondo il NYT, “la risposta si trova in una terza categoria di attività di Trump: le aziende che possiede e gestisce personalmente. Le perdite collettive e persistenti da esse riportate lo hanno in gran parte assolto dal pagamento delle imposte federali sul reddito. (…) Questa equazione è un elemento chiave dell’alchimia delle finanze di Trump: usare i proventi della sua celebrità per acquistare e sostenere imprese a rischio, e poi gestire le loro perdite per evitare le tasse“.

Il rimborso da 72 milioni di dollari

Una delle scoperte più clamorose del NYT riguarda il rimborso da 72.9 milioni di dollari che Trump avrebbe ricevuto dal Tesoro americano per tutte le imposte sul reddito pagate per il periodo dal 2005 al 2008. La legittimità di tale rimborso è al centro della battaglia legale per la revisione contabile che The Donald conduce da tempo con l’Ufficio dell’Entrate Interno (IRS) e che il presidente ha utilizzato in questi anni (a partire dal 2011) per giustificare la propria ritrosia a pubblicare le sue dichiarazioni dei redditi, sostenendo che fossero oggetto di “audit“, ovvero una verifica della correttezza dei dati di bilancio e delle procedure di un’azienda.

Trump ha avuto accesso a quel rimborso “monstre” dichiarando enormi perdite commerciali – per un totale di 1,4 miliardi di dollari dalle sue attività principali per il 2008 e il 2009 – che le leggi fiscali gli avevano impedito di utilizzare negli anni precedenti. Ma, scrive il Times, “per trasformare quel lungo arco di fallimenti in un gigantesco assegno di rimborso, si è affidato a un abile lavoro di contabilità“. Se alla fine i revisori dei conti non ammetteranno il rimborso federale di 72,9 milioni di dollari di Trump, egli sarà costretto a restituire quel denaro con gli interessi, ed eventualmente con sanzioni, per un totale che potrebbe superare i 100 milioni di dollari.

Trump è davvero un vincente?

Oltre a mettere in dubbio l’onestà di Trump sotto il profilo fiscale, l’inchiesta del New York Times mina alle fondamenta il mito del “self-made man“, l’imprenditore di successo che si è fatto da solo, e quello del “dealer“, l’uomo capace di spuntarla in ogni trattativa grazie al suo fiuto per gli affari. Dalle dichiarazioni dei redditi emerge esattamente l’opposto: Trump risulta avere debiti per centinaia di milioni di dollari. Crolla così gran parte dell’impalcatura che il newyorchese ha creato per rappresentare la sua immagine all’esterno. The Donald, su Twitter, bolla tutto come “fake news“, ma a due giorni dal primo dibattito tv con John Biden, a poco più di un mese dalle elezioni, gli americani – anche i più fedeli conservatori – si trovano a dover decidere se vogliono credere al tweet del presidente o alle dichiarazioni rese al fisco dallo stesso tycoon.

Soldi e politica estera

Il dilemma diventa d’interesse pubblico a maggior ragione considerando il conflitto di interessi generato dal fatto che Trump non ha voluto rinunciare a guidare le sue società mentre si trovava alla Casa Bianca. Ma cosa succede se il presidente ha interessi personali in Turchia? Come bisogna leggere la sua intesa con Erdogan alla luce di questa scoperta? Ed è normale che il leader delle Filippine, Rodrigo Duterte, abbia scelto come inviato speciale per il commercio a Washington l’uomo d’affari dietro la Trump Tower di Manila? Sono solo alcune delle questioni che emergono dall’inchiesta, che evidenziano un intreccio geopolitico pericoloso per gli Stati Uniti, gestiti come un’impresa di famiglia da un magnate fin troppo disinvolto, che lega i suoi affari alle fortune del proprio Paese.

Nella politica americana, c’è un’espressione ricorrente nelle campagne elettorali: “October surprise“. Tradizione vuole che quasi sempre vi sia una “sorpresa d’ottobre”, un evento che cambia irrimediabilmente la contesa, che è in grado di spostare gli equilibri della sfida per la presidenza. Alcuni, per motivare questa tendenza, hanno tirato fuori perfino un’apposita teoria del complotto. Questa, però, ha il sapore di una “September surprise“. In fondo, nemmeno tanto sorpresa. Bastava dare ascolto alla vecchia regola dei maestri del giornalismo d’inchiesta: “Follow the money“, segui i soldi.

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