Luglio 4, 2023

Storia di un’evacuazione. Afghanistan, gli errori dell’intelligence e il caos: i Talebani alle porte di Kabul – 1^ parte

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Un giorno ho ricevuto una telefonata dal mio capo: ‘Diana, ipoteticamente parlando: se dovessi andare in una località sconosciuta, per evacuare un numero sconosciuto di persone, in un periodo di tempo sconosciuto, con una minaccia sconosciuta, di quante persone avresti bisogno?‘. Ho risposto: ‘Beh, è una località sconosciuta, ma se stai parlando dei Caraibi e di una prigione da evacuare perché c’è stato un uragano, probabilmente dodici. Ma se stai parlando di Kabul, e i Talebani l’hanno presa, e c’è la Caduta di Saigon atto secondo, vorrei avere tutte le persone che puoi darmi, le vorrei tutte‘. Lui mi ha detto: ‘Bene, forse è il caso di pensare al secondo caso‘, e ha riattaccato“.

È così che inizia il racconto del più grande ponte aereo britannico mai realizzato dalla Seconda Guerra Mondiale nelle parole di Diana Bird, caposquadra della Royal Air Force, testimone diretta di un caos senza precedenti, di un dramma in cui coraggio e terrore si mescolano fino a confondersi, fino a fare la Storia.

Agosto 2021: dopo 20 anni in Afghanistan, l’Occidente ha deciso, si torna a casa. I leader dei Paesi coinvolti nelle operazioni di rientro si affannano per comunicare all’esterno che la situazione è molto complessa, certo, ma ancora sotto controllo. Eppure i piani di evacuazione, quando esistono, sono già saltati.

Mentre l’amministrazione Biden pianifica il ritiro dei cittadini americani, dando seguito all’accordo di pace con i Talebani firmato mesi prima da Donald Trump, intelligence USA e vertici militari concordano: le forze di difesa di Kabul hanno la possibilità di resistere all’avanzata talebana. Del resto i numeri non mentono: l’esercito afghano può contare su 300mila effettivi contro gli 80mila dei Talebani. E poi ci sono la sua forza aerea, vent’anni di addestramento, equipaggiamenti moderni. Cosa potrebbe mai andare storto? Risposta: tutto.

Diana Bird ha il tempo di lasciare il cane dalla sorella prima di partire alla volta di Kabul, incaricata di guidare parte della principale operazione logistica a terra. È l’11 agosto quando arriva nel Paese insieme ad un piccolo gruppo di colleghi. Ad accoglierli trovano un caldo da girone infernale, una città fantasma, ed una base militare semideserta. Sì, ci sono i soldati turchi, alcuni accampamenti americani, e poi la necessità di trovare in tempi rapidi una struttura in grado di rispondere alle esigenze della compagnia. La scelta cade su un luogo poco distante dall’aeroporto: si chiamaCasa Italia“, per anni è stato il quartier generale dei soldati italiani in Afghanistan.

Sarà il caldo che schiaccia ogni pulsione, sarà questo strano senso d’attesa, o forse il silenzio che sempre svetta sul resto quando si lavora sodo, ma nell’aria c’è una quiete straordinaria, una calma quasi irreale, contraltare perfetto del caos che sta per arrivare. E dire che sembra ieri: l’intelligence USA ha da poco stimato che gli “studenti coranici”, ad un certo punto, potranno sì prendere Kabul, ma non prima di uno o due anni dal ritiro occidentale. Si dirà: “Quella stima è stata rivista”, ma anche in quel caso lo scenario peggiore indica che la capitale non cadrà comunque fino alla fine del 2021. Eppure distretto dopo distretto, provincia dopo provincia, i Talebani avanzano inesorabili. Ora sono quasi alle porte della città: “Il mio istinto – ricorda oggi Diana – mi ha detto che tutto sarebbe andato a rotoli, ma non avevo capito quanto in fretta questo sarebbe successo“.

Adam Croucher, paracadutista, sergente maggiore della compagnia, ha due plotoni al suo servizio. Quando il primo ministro Boris Johnson ordina ufficialmente l’evacuazione di tutti i cittadi britannici e degli afgani eleggibili, mancano diciotto giorni alla deadline del 31 agosto, alla data in cui il ritiro occidentale dovrà essere completato. Adam in quel momento si trova da Starbucks con moglie e figli. Ma la sua vita, come quella di tanti altri, è una vita sospesa, in servizio permanente.

Basta un messaggio sullo smartphone, una mezza espressione sul volto del marito, perché sua moglie comprenda che Adam deve partire di nuovo. Croucher invia una parola in codice in una chat di gruppo: i suoi uomini sono in giro per il mondo. Chi in Cornovaglia, chi in Francia. Ma il 95% della compagnia, nel giro di sole 3 ore, è già pronta a partire. Direzione Kabul.

All’ambasciata del Regno Unito in Afghanistan, riposto in qualche cassetto, da sempre si trova un piano di evacuazione. Ma chi lo ha elaborato non ha forse preso in considerazione una situazione di tale vulnerabilità rispetto al nemico. Occorre allora distruggere i documenti sensibili, persino lo stemma della Corona ai cancelli dell’ambasciata, per evitare che i Talebani pensino bene di mostrarsi con esso, rendendolo scalpo della presa di Kabul.

La scena è surreale, ma occorre fare poco gli schizzinosi. Quando i terroristi iniziano a sciamare per le vie del centro, a bordo di veicoli americani abbandonati dai soldati afgani in fuga, la capitale è, di fatto, già caduta.

Il punto di raccolta individuato dall’ambasciata britannica è il Baron Hotel, albergo poco distante dall’aeroporto: da qui si leveranno gli aerei che dovranno riportare in patria connazionali e collaboratori degli ultimi due decenni, in numero ancora imprecisato. La struttura è stata scelta per la sua vicinanza allo scalo, perché presenta condizioni di sicurezza sopra la media, e perché al suo interno si trovano già molti detentori di passaporto britannico. Ma quello che gli ufficiali non hanno forse messo in conto è il fattore che dominerà le ore successive: il panico. Prima centinaia, poi migliaia di persone, si mettono in cammino per raggiungere l’aeoporto. E l’uscita del Baron Hotel, inesorabilmente, risulta ostruita.

È ormai evidente che i piani originali siano saltati. I soldati in arrivo dal Regno Unito si trovano davanti uno scenario inaspettato, ma ormai ci sono pochi dubbi: per riportare a casa i loro connazionali dovranno rischiare la vita. È per questo che gli ufficiali danno ordine di tirare fuori le armi dalle stive: che ogni soldato imbracci un fucile, ed in fretta. Ma i pericoli si presentano già in volo. È difficile che un C-17 venga abbattuto, però l’imponente traffico aereo e il caos a terra rendono impresa ardua orientarsi tra le indicazioni che vengono impartite dalla torre di controllo. Tramite radio, ad esempio, c’è chi dice di scendere di quota: ma il suggerimento è forse diretto ad un altro aereo. Manca poco perché il velivolo inglese si schianti contro le montagne dell’Afghanistan.

Diana, nel frattempo, è a Casa Italia. A scandire quegli istanti apparentemente interminabili sono il suono delle sirene e quello degli spari. La Base Aerea di Kabul è assediata. C’è chi controlla gli ingressi in posizione di tiro, chi siede per terra, nei corridoi, intento a caricare le munizioni nei fucili. Sembra quasi la scena di un film. Così, quando le immagini appaiono sulla BBC, è un attimo concedersi un pensiero fragile, un pensiero umano: “I miei genitori stanno guardando“.

Eppure è all’aeroporto che si consuma il vero dramma. Una guardia di sicurezza afgana, vedendo una cittadina inglese, commenta amara: “Così ci state abbandonando. Lo fanno sempre: vengono e se ne vanno“. E come puoi contraddirlo? In mezzo a questa folla impazzita ci sono uomini, donne, bambini: cercano un posto su uno degli aerei in partenza. Una speranza per non morire di terrore. Nel terrore.

Ma a separarli dalla vita ci sono i soldati e il filo spinato. Adam, che nella sua carriera ne ha viste tante, fa in tempo pensare che tutte quelle persone, se ad un certo punto volessero, potrebbero tutti insieme rompere gli argini. Ha ragione. Quando uno dei primi aerei inglesi decolla, portando con sé 203 persone, il pilota fa in tempo a vedere migliaia di afgani nell’atto di invadere la pista. È in quel preciso istante, con l’aeroporto inutilizzabile, senza abbastanza armi, e con i Talebani che li circondano, che Diana per la prima volta realizza: “Potrei non tornare a casa. Questo potrebbe essere stato un viaggio troppo lungo“.

Tutta quella gente sta tentando di salire sugli aerei militari. Letteralmente. C’è chi trova posto sulla fusoliera, chi si arrampica sulle ali. Incredibilmente credono di poter arrivare nel Regno Unito in quel modo: tenendosi stretti, lottando con le unghie e con i denti per non essere sbalzati via dalla folle velocità dei jet occidentali.

Quando la realtà li avvicina verso il suolo, sono pochi secondi che durano un’eternità. Chissà se, un attimo prima dello schianto, fanno in tempo a pensare a chi è rimasto sulla pista di decollo, chissà se si ritengono più fortunati ad aver posto fine alle proprie sofferenze. Per chi è a terra, d’altronde, il peggio deve ancora venire.


Questo articolo trae ispirazione da “Evacuation“, straordinario documentario appena uscito su Channel 4, in Inghilterra. Soldati che hanno vissuto l’esperienza del ritiro occidentale in prima linea sono stati lasciati liberi dai vertici militari di raccontare ciò che hanno visto in quei giorni di inferno. Il Blog ha sentito il dovere di riportarlo, aggiungendo ulteriori dettagli al racconto: perché l’Afghanistan, e chi vi è rimasto, non sia dimenticato.

La “prima puntata” di questa serie di articoli è aperta a tutti, le seguenti saranno a disposizione in versione integrale SOLO per gli iscritti. C’è un’intera giornata di lavoro dietro un pezzo del genere. Se volete avere accesso ai contenuti esclusivi del Blog e, soprattutto, se volete sostenere il mio lavoro, iscrivetevi ora. Vi ringrazio. https://steadyhq.com/it/dangelodario

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2 commenti su “Storia di un’evacuazione. Afghanistan, gli errori dell’intelligence e il caos: i Talebani alle porte di Kabul – 1^ parte

  1. Le immagini di quei disperati aggrappati agli aerei in decollo che pochi secondi dopo cadevano sfracellandosi al suolo mi ricordano quelle di altri disperati a New York che si buttavano dalle finestre delle Torri gemelle, un cerchio che si chiude, nel modo peggiore e più vergognoso per l’occidente. La democrazia non si esporta con le armi, anche se questo non era l’obiettivo iniziale di questa guerra, ma purtroppo sembra che in alcuni casi sia l’unico modo per dare libertà e diritti a chi altrimenti sarebbe solo un corpo da usare.
    Attendo il seguito del racconto, grazie infinite per lo sforzo.

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