Luglio 6, 2023

Storia di un’evacuazione. Afghanistan, i soldati inglesi e la trattativa con i Talebani: “Non sparate, sono amici!” – 2^ parte

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Nella folla che ulula di rabbia e disperazione, c’è chi implora di essere portato via dall’Afghanistan, chi lotta per non morire. Ma pure macchie nere in movimento attirano l’attenzione dei soldati di Sua Maestà, che nell’agosto 2021 è ancora la Regina. E se sei a Kabul, nelle ore in cui la capitale sta cadendo o forse è già caduta, c’è solo una categoria di persone a cui associ quelle immagini, quel colore: lì davanti, a pochi passi da te, armi in pugno, stanno in piedi i Talebani.

Adam Croucher, professione paracadutista, avvicina le dita al grilletto, perché è questo che gli hanno insegnato.

Lo fa ancora una volta, come i suoi compagni. D’altronde, se adesso stanno lasciando l’Afghanistan, se stanno per tornare a casa, non è forse perché, molti anni prima e troppi morti dopo, sono venuti a combattere contro i Talebani la guerra al terrore?

Eppure quella sensazione di mondo alla rovescia che pervade veterani e novellini, quella strana impressione di essere finiti chissà per quale ragione all’interno di un girone infernale, viene confermata un attimo prima che gli inglesi facciano fuoco. È un soldato americano, da una piazzola, a gridare: “Non sparate su di loro! Sono Talebani amici“.

La contraddizione in termini colpisce come un pugno nello stomaco molti dei soldati. “Talebani amici? E da quando?“. Ma pure i terroristi imbracciano le armi: in una mano il mitra, nell’altra lunghe fruste, attrezzatura d’ordinanza per spargere paura tra la gente. Occorre forse fidarsi, per evitare una strage? La raffica di spari che parte dai fucili talebani, un minuto dopo, chiarisce che sarà complicato gestire la convivenza. La folla si è dispersa, stavolta: ma a quale prezzo, la prossima?

Mancano 15 giorni alla deadline del 31 agosto, la data stabilita per la fine delle operazioni di ritiro. Ma 15 giorni a Kabul senza presenza militare adeguata, senza armi a sufficienza, senza personale addestrato alle sfide proposte, possono trasformarsi in un incubo. Occorrerebbe un patto di non belligeranza con i nuovi – vecchi – titolari dell’ordine pubblico a Kabul. Ebbene sì, dopo vent’anni di ostilità, l’Occidente ha necessità di umiliarsi, di contrattare con i Talebani una tregua che dia seguito alla pace siglata da Donald Trump, mesi prima, in quel di Doha.

Per gli inglesi, a cercare il contatto, è un soldato semplice. Com’è possibile che tocchi al giovane Fahim gestire una trattativa così delicata?

Risposta: nell’improvvisazione di quelle ore, dove tutto è lasciato al caos, anziché al caso, più di un ufficiale può un interprete madrelingua, qualcuno che conosca i Talebani, che sappia come parlargli. Fahim è quella persona: perche è nato in Afghanistan, appartiene a questa terra, e alla brutalità degli “studenti coranici” è abituato per averla sperimentata sulla propria pelle.

Nei pochi metri che dividono una fazione dall’altra le mani cercano il conforto delle armi. Perché l’odio non si dimentica. Soprattutto se per mano di quei terroristi hai visto morire i tuoi cari. Ma prima del risentimento viene la missione, anche la nazione. Così Fahim prova a parlare l’unica lingua che i Talebani possono comprendere: quella del loro interesse. Ai nemici di ieri spiega che prima gli occidentali andranno via dal Paese, prima potranno imporre la propria legge su Kabul. Ma per completare velocemente le operazioni di ritiro occorre collaborare: pattugliare le vie d’accesso all’aeroporto, gestire la marea umana che spinge per partire, e via dicendo. I Talebani chiedono garanzie: perché la sfiducia è reciproca. Ma alla fine un accordo si trova.

Eppure che si cammini su un filo sottilissimo appare chiaro già nelle ore immediatamente successive all’intesa. Accade quando i soldati più navigati si ritrovano mescolati ai Talebani. È un attimo perché il richiamo del sangue dei propri caduti torni a friggere nelle vene di chi è rimasto. Un militare britannico la mette così, a proposito dei Talebani: “Loro sono il nemico, per la mia generazione“. Così quando uno di questi prende a sfidarlo, guardandolo fisso nelle palle degli occhi, il primo pensiero che gli passa per la testa mette paura: “Sai che vi ucciderei all’istante. Sai che, se le cose vanno a rotoli, tutti voi morireste. E noi saremmo felici di farlo“. Però, in qualche modo, il patto tiene, e consente che dal male originino pure storie di speranza.

Prendete questo soldato inglese: nella folla scorge un bambino afgano, ascolta la sua storia. La madre o il padre, oggi non sa più dire chi dei due, è stato ucciso dai Talebani. Il genitore sopravvissuto ha abbandonato suo figlio: cosa sarà di lui? Il soldato ha un’idea: chiedere ad una famiglia afgana in procinto di lasciare il Paese di prendere con sé il ragazzo. Ma loro non lo vogliono, ed è un “no” che non ammette repliche. Dunque, che fare? Risposta: cercare un compromesso. Prendetelo e poi abbandonatelo. Fate che lui sia come “Aladdin“. Che arrivi nel Regno Unito. E poi si vedrà se sa cavarsela. Con il militare che lo salva dai Talebani, prima di partire, il bambino scatta una foto e condivide il suo sogno: aprire un negozio di telefoni. Ma chissà che fine ha fatto il nuovo Aladdin. Già, commenta il soldato oggi, “chi può saperlo?“.

C’è chi ha minor fortuna, chi sarà costretto a vivere fino alla fine dei suoi giorni con un misto di rimpianto e rimorso. Il cappellano della missione, ad esempio, trova cinque bambine per terra, attorno al corpo senza vita della loro madre. Pochi metri più in là, incombe come un memento la presenza dei Talebani. La più grande ha 11 anni, ed una mano mozzata. Sognano l’America, ma non ci sono organizzazioni umanitarie in grado di garantirgli un lasciapassare. Il cappellano si impegna fino allo stremo delle forze, e infine una strada la trova. Ma quando torna indietro, quando va per comunicare alle bambine che per loro è stato trovato un posto nel viaggio della speranza, delle ragazze non c’è già più traccia. Dove sono finite?

La lettera dei Talebani alle studentesse afgane: “Sappiamo chi siete, sappiamo che siete single, verremo a prendervi”. La famiglia afgana salvata dalla foto della Regina Elisabetta. Un attentatore suicida nella folla

Sono scomparse nel nulla. Chi può dire che fine abbiano fatto, già, chi può dirlo?

Si spezza pure la voce di Diana Bird. A dieci giorni dal completamento delle operazioni di ritiro, la caposquadra della Royal Air Force a Kabul viene a contatto con un gruppo di giovani donne, avranno tutte una ventina d’anni. Sono ben istruite, e soprattutto sono single. Ognuna di loro ha ricevuto una lettera da parte dei Talebani. Recita più o meno così: “Sappiamo chi siete, sappiamo che siete single, verremo a prendervi“. Nemmeno per loro c’è posto sugli aerei militari che separano l’Inferno e il Paradiso: questione di requisiti non soddisfatti. E le ragazze, disperate come sono, sfogano la loro incredulità su Diana: “Come puoi, tu, da donna, farci questo? Come puoi non capire?“. La risposta è tanto sincera quanto inutile per placare la coscienza: “Certo che capisco, certo che lo faccio! Ma è che non p…

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