Luglio 21, 2023

SPECIALE MARIO DRAGHI. Storia di una caduta. I retroscena sul suo addio, ad un anno dalle dimissioni

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Siamo qui, in quest’aula, oggi…Sono qui, in quest’aula, oggi, a questo punto della discussione perché, e solo perché, gli italiani lo hanno chiesto“.

Trascorso un anno dall’ultimo atto, rimane in purezza la dignità del Draghi “politico”. E il guizzo dell’uomo che si sottrae ai diktat di commedianti di bassa lega.

Così se vi sembra calda l’estate in corso è perché avete dimenticato la scorsa. Il clima arroventato, le scissioni, i penultimatum, gli infiniti vertici romani. Soprattutto, il petto in fuori e la schiena dritta di uno statista italiano.

Alcuni dei protagonisti di quelle giornate, consultati da questo Blog, condividono l’impressione sfocata che solo il segnale di Palazzo Madama è in grado di restituire in termini così romantici. Il calendario non mente: sarà pure trascorso un anno solo, ma qui sembra almeno un secolo che non vediamo Mario Draghi calpestare i palcoscenici della politica internazionale.

Qualcosa di diverso si sarebbe potuto fare? È stato tentato tutto il possibile per scongiurare questo epilogo? E soprattutto: dove si colloca l’inizio della fine?

Ex dirigenti del Movimento 5 Stelle sostengono che il castello di carte abbia iniziato a sfaldarsi dalla scissione di Luigi Di Maio: è lì, giurano, che Giuseppe Conte ha visto in Draghi un nemico, il regista desideroso di estrometterlo dalla scena. Tutti gli altri credono l’opposto: ovvero che il destino del premier fosse in realtà segnato, che una coalizione di governo così larga ed eterogenea non avesse vita più lunga di quella in effetti vissuta.

Però tirando fuori dal cassetto il taccuino dell’epoca c’è una data che più di altre pare rappresentare uno spartiacque nella storia del governo e di questo Paese. È il 29 giugno. Un’intervista a “Il Fatto Quotidiano” di Domenico De Masi, sociologo e già direttore scientifico della Scuola di formazione M5s, fornisce a Giuseppe Conte il “casus belli“, il movente per sfogare all’esterno la sofferenza che il partito da mesi cova nei confronti della responsabilità di governo. E della leadership di Draghi.

De Masi dichiara quanto segue: “Grillo mi ha raccontato che Mario Draghi gli ha chiesto di rimuovere Giuseppe Conte“. Difficile pensare che un gossip da comare possa minare le fondamenta di un governo, a maggior ragione in un periodo di grande instabilità internazionale. Eppure l’avvocato sceglie scientemente di dar credito alla dichiarazione di De Masi. “Grillo – dice – mi aveva riferito di queste telefonate. Trovo sinceramente grave che un premier tecnico, che ha avuto da noi fin dall’inizio l’investitura per formare un esecutivo di unità nazionale, si intrometta nella vita di forze politiche che lo sostengono.

E cosa dice l’accusato? Mario Draghi in quelle ore è a Madrid, per un vertice NATO che sulla carta avrebbe cose più importanti da trattare rispetto a retroscena di dubbia provenienza, smentiti (peraltro) dallo stesso Grillo. “Non capisco perché vogliano tirarmi dentro a questa storia“, ammette candidamente il banchiere centrale. Eppure la smentita che Palazzo Chigi si convince a vergare quando la polemica mostra da sola di non sapere rientrare, nemmeno placa gli appetiti dell’avvocato. La foto di Draghi costretto al telefono, su una panca del museo del Prado, è l’immagine di un presidente del Consiglio strattonato in patria dai suoi azionisti di maggioranza. Di un uomo solo.

Lui minimizza, ostenta sorrisi ed una certa quantità di ottimismo, ancora convinto – forse – che si possa risolvere i problemi parlando di politica. Chi lo avvisa, nel suo governo, che agli occhi di Conte dovrà prima o poi scontare il “peccato originale“, chi gli dice che per l’avvocato rimarrà sempre e comunque colui che lo ha privato dell’amato ufficio di Palazzo Chigi, l’esecutore del fantomatico “conticidio“, in quelle ore trova poco ascolto. È forse una delle maggiori colpe di Mario Draghi: aver creduto che nei rapporti umani e politici valesse come unità di misura la sua abitudine alla correttezza.

Invece, mentre il premier assicura che il governo non è in pericolo, Conte avvisa i suoi di tenersi pronti, di stare all’erta. Perché, come spesso gli capita, l’avvocato è preda dell’indecisione. Dal Pd lo avvertono: levando il sostegno al governo verrà meno pure il (mitologico) “campo largo“. Ma Conte è già lontano, è già altrove. Il leader pentastellato compulsa i sondaggi, si domanda come l’opinione pubblica recepirebbe la caduta dell’esecutivo in un momento di così grande incertezza internazionale. Ed insieme, in privato, coi suoi fedelissimi, ogni sera afferma la convinzione che la permanenza nel governo finirebbe per rappresentare un bagno di sangue in vista delle Politiche. Così accarezza un paio di “pazze idee”.

La prima è quella dell’appoggio esterno. Ma su questo fronte deve guardarsi dalla Lega, perché è estate, come ricordato in precedenza, e Matteo Salvini fiuta aria di Papeete, coltivando la stessa tentazione di Giuseppe Conte: l’uscita dal governo, senza la sua caduta. La seconda pensata di Conte è ancora più intrigante, dal suo punto di vista: per qualche ora si rincorre la voce di un avvocato deciso a convocare un pilatesco voto online tra gli iscritti M5s. Il ragionamento suona più o meno così: se la “base” ha avuto il diritto di esprimersi sull’ingresso pentastellato nell’esecutivo, così deve adesso poter dire la sua alla luce degli ultimi accadimenti internazionali, giacché il governo Draghi nacque per gestire i soldi del PNRR, mica per gestire questo scenario stravolto.

Ma la valanga si ingrossa più in fretta di quanto gli stessi protagonisti siano in grado di prevedere e di gestire: è già a ridosso della valle. Conte ottiene un incontro a Palazzo Chigi, e il 6 di luglio consegna a Draghi le sue lamentele e nove richieste che sembrano la base di un governo monocolore M5s. Chiede risposte entro la fine del mese, mentre il presidente del Consiglio continua a tenere fede al patto costitutivo del governo, al suo primo ed inviolabile principio: che sia di unità nazionale.

Per questo Draghi dichiara urbi et orbi di non essere “disposto a guidare un governo con un’altra maggioranza“. Perché, afferma, “il governo è nato con i 5 Stelle, non si accontenta di un appoggio esterno“. È l’ennesimo gesto di correttezza non raccolto da Giuseppe Conte, che in quel preciso istante comprende di avere fra le mani il destino del premier, a lungo sopportato, mai veramente amato.

La sola speranza di evitare l’impatto, a quel punto, si trova sul Colle più alto della politica italiana.

Sergio Mattarella, infatti, nei giorni precedenti ha visto Giuseppe Conte al Quirinale. Un incontro forse inusuale, ma necessario per ricordare al leader pentastellato – e forse pure all’ex presidente del Consiglio – la portata della posta in gioco. Ma nemmeno questo basta ad arrestare il treno in corsa diretto verso lo strapiombo.

Il primo atto della resa dei conti si consuma sul dl Aiuti. In Senato il Movimento 5 Stelle si rende indisponibile a votare la fiducia. E quando la notizia diventa ufficiale si assiste ad uno strano fenomeno, a Palazzo Madama. Un senatore esperto come Luigi Zanda, uno che ne ha viste tante, non fa mistero di essere rimasto turbato dal boato emesso dai colleghi M5s quando l’idea di strappare si fa certezza. Altri, come Davide Faraone, raccontano di senatori pentastellati voltatisi verso di lui per indirizzargli un esaltato “siamo tornati“. Da dove non è dato …

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