Agosto 25, 2023

SPECIALE DONALD TRUMP. Retroscena e racconto del giorno che ha cambiato la storia USA

Casa Bianca, 5 gennaio 2021.

Il camino dello Studio Ovale è acceso, è una fredda notte invernale. Oltre le porte-finestre, il frastuono prodotto dalla folla radunata ai margini di Pennsylvania Avenue percorre diversi isolati, aggira i rigidi controlli del Secret Service, fino ad incunearsi nel petto del presidente degli Stati Uniti d’America. È un brivido di esaltazione quello che percorre Donald Trump, quello che ne scuote il cuore. O forse è solo follia. Dopotutto, ha mai avuto scelta? Sua nuora, Kimberly Guilfoyle, gli ha tolto pure gli ultimi dubbi: le migliaia di persone che inneggiano al suo nome sono la punta di un enorme iceberg: “Questa è la volontà del popolo“, sentenzia. E lui quel popolo, il suo popolo, vuole accontentarlo.

Washington, 6 gennaio 2021.

Mezzogiorno. Liz Cheney, deputata Repubblicana, è appena arrivata a Capitol Hill. Con molti colleghi, ormai, non scambia più una parola da mesi. Troppi veleni, per pensare di passare oltre. Ma quando li vede raccolti attorno ad alcuni documenti di cui non conosce l’origine, il dubbio la assale: cosa sta succedendo nella saletta riservata ai parlamentari del partito che fu di Abraham Lincoln? Liz Cheney si avvicina, e subito capisce: è in corso un tentativo di assalto alla democrazia americana. Ancora in forma burocratica, certo. Ma dopo? Cosa accadrà dopo, se questo piano non viene fermato subito? Mancano all’appello soltanto un deputato ed un senatore, due persone, per costringere il Congresso a rinviare la sessione congiunta che deve certificare la vittoria di Joe Biden. Qualcosa si deve pur fare per…

Ad interrompere il flusso di pensieri è lo squillo del telefono. Sullo schermo appare la scritta: “Papà“. Ma non è un papà qualunque. È Dick Cheney, quel Dick Cheney. Già vicepresidente degli Stati Uniti, un signore che nella vita ne ha viste ed affrontate tante, forse troppe, per non capire che quello che sta per materializzarsi al Campidoglio è un cigno nero.

Papà Cheney ha visto il presidente scagliarsi pubblicamente contro sua figlia, additarla come nemica, traditrice del Partito Repubblicano. E adesso, per una volta, ha paura. Sa che Liz, la sua Liz, di lì a poco si pronuncerà a favore del riconoscimento della vittoria di Biden. Per amore del proprio Paese, delle sue leggi. Così, quasi a sé stesso, domanda: “Quello che sta succedendo dovrebbe influire su ciò che farai?“. Non è neanche un dubbio, è più che altro un esercizio di coscienza, che si esaurisce nello spazio di un secondo. Perché un Cheney resta un Cheney. Per sempre. “Non puoi permettere che questo tipo di minaccia ti impedisca di fare ciò che è giusto“, conclude il padre. E la figlia è degna del suo sangue. Andrà avanti.

Osservatorio Navale, residenza del vicepresidente degli Stati Uniti.

Anche Mike Pence è alle prese con il suo personalissimo dilemma: assecondare oppure no le pressioni indebite che l’inquilino della Casa Bianca sta esercitando da settimane su di lui?

L’ultima in ordine di tempo è arrivata alle 8:17 di questo 6 gennaio. Donald Trump pubblica su Twitter un’esortazione che ha il chiaro sapore dell’ultimatum: “Fallo Mike, questo è un momento di estremo coraggio!“.

Ore 12:36. Mike Pence è già a Capitol Hill. Insieme a lui ci sono sua moglie Karen e sua figlia Charlotte. È stato lui a chiedergli venire. In una giornata come questa, un uomo come Pence – un uomo e basta – ha bisogno del sostegno morale della sua famiglia. Ma se lo ha fatto, se le ha portate nella tana del lupo, è perché davvero non immagina che la situazione possa degenerare al punto da metterne in pericolo l’incolumità. Pensa ancora di venirne a capo: con la politica, e con l’aiuto del Signore.

Per questo, mentre si accinge a presiedere la sessione congiunta, il suo staff diffonde un comunicato che ha l’intento di chiarire la linea del giorno: il vicepresidente non verrà meno ai propri doveri costituzionali, non bloccherà il conteggio dei voti elettorali, non si piegherà alle pressioni che provengono dal suo campo di appartenenza. Ed in fondo, il senso delle sue dichiarazioni sta tutto in questo passaggio: “Quattro anni fa, circondato dalla mia famiglia, ho giurato di sostenere e difendere la Costituzione terminando con le parole ‘Che Dio mi aiuti’“.

Il comizio di Donald Trump all’Ellipse, nel frattempo, è un concentrato di fake news e propaganda. Trump parla a braccio, ripete il copione messo a punto in settimane di rivendicazioni senza fondamento, ma aggiunge un punto esclamativo che sembra un chiaro invito all’insurrezione: “Se non combattete come all’inferno, non avrete più un Paese. Cammineremo lungo Pennsylvania Avenue – amo Pennsylvania Avenue – e andremo al Campidoglio“.

Quando si capisce ciò che Trump ha appena messo in moto, probabilmente è già tardi. Tra i primi ad attivarsi c’è Kevin McCarthy, l’attuale speaker della Camera. L’esponente repubblicano sente puzza di guai lontano un miglio, così compone il numero di una delle persone che sa poter essere più influenti alla Casa Bianca: è quello di Cassidy Hutchinson, assistente di primo rango, non ancora in predicato di diventare testimone chiave dell’apposita commissione che indagherà sui fatti di quel giorno.

È proprio lei a raccontare che qualcosa di strano, nel tragitto dall’Ellipse alla Casa Bianca, in effetti accade. A dirglielo è stato Tony Ornato, vice-capo dello staff della Casa Bianca. Sostiene che Trump, una volta in auto, abbia chiesto di essere trasportato a Capitol Hill, per marciare insieme ai suoi sostenitori, e che Bobby Engel, il responsabile della sua sicurezza, lo abbia ripetutamente informato: “No, signor presidente, non è abbastanza sicuro“.

Trump a questo punto sbotta: “Sono il fottuto presidente! Portami su al Campidoglio, adesso!“. Il tycoon si sporge verso la parte anteriore del veicolo, tenta di afferrare il volante, pare arrivi a mettere la mani al collo del malcapitato autista. Ma il Secret Service non può mettere a rischio la vita di un presidente. Anche se è questi a domandarglielo. La scorta è stata informata che attorno a Capitol Hill girano armi. E a dire il vero a saperlo è lo stesso Trump, che però non sembra affatto preoccupato: loro – i manifestanti – spiega, “non sono qui per farmi del male“.

È così che si conclude il primo tempo del film che cambia la parabola di Donald Trump. Poi ha inizio il secondo. Ed è una pellicola che sta a cavallo fra il genere drammatico e la fantascienza.

Sono le 13:19: Donald Trump ha appena fatto rientro alla Casa Bianca. Alle 13:25 è già nella sala da pranzo privata della sua residenza, accanto allo Studio Ovale, di fronte ad uno dei molti televisori che ha fatto installare negli anni da presidente, pronto a godere dello spettacolo in diretta su Fox News. In quei frangenti è già chiaro che il dispositivo di polizia non sia strutturato per far fronte all’assalto che va in scena. Di pari passo, la sessione parlamentare chiamata a certificare la vittoria di Joe Biden, incontra i primi ostacoli.

Ad intervenire con un’obiezione riguardante lo spoglio in Arizona è il deputato Paul Gosar. Mike Pence segue il protocollo: domanda cioè se questa sia appoggiata e firmata da un senatore. “Sì, lo è“, risponde il parlamentare. Poi guarda alla sua destra: “Lo è“, risponde un’altra voce fuori campo. L’immagine si allarga: è quella di Ted Cruz, prima avversario, poi fervente sostenitore di Donald Trump. Il senatore si alza in piedi con fare gladiatorio, deciso a far pesare il momento, a prendersi la standing ovation di buona parte dei suoi colleghi. È una scena che avrebbe forse ambizioni epiche, ma che invece conclama lo scadimento a livelli farseschi del Partito Repubblicano ai tempi di Donald Trump.

Passano pochi minuti da questo intervento, quando l’ultimo leader repubblicano degno di questa definizione, Mitt Romney, riceve un messaggio sul suo telefono: “Sono dentro il Campidoglio“, gli comunicano. Non c’è bisogno di soggetto. La prima irruzione si registra alle 14:11.

Il senatore dello Utah fa ciò che pensa sia più giusto: lasciare l’Aula, dirigersi in fretta verso il suo ufficio privato. Ma nel tragitto ha la fortuna di incontrare sulla propria strada un agente della polizia di Capitol Hill. Si chiama Eugene Goodman. Ed è l’uomo che forse gli salva la vita. Goodman intravede Romney da lontano, inizia a correre nel corridoio, lo sorpassa rapidamente e gli fa segno di seguirlo: “Ci sono persone non lontano, dentro sarai più al sicuro“.

Non sarà la sua azione eroica di quel pomeriggio. Di lì a poco, Goodman si troverà a gestire in solitaria una moltitudine di rivoltosi. Il livello di professionalità mostrato gli varrà, anni dopo, una medaglia ricevuta dalle mani dal presidente Biden in persona.

Quello di Mike Pence, rispetto a Mitt Romney, è un destino leggermente diverso. Gli agenti del Secret Service, responsabili della sua sicurezza, lo spingono senza troppi complimenti attraverso una porta laterale che conduce al suo ufficio.

Non passa molto tempo prima che i manifestanti sciamino a ritroso negli stessi ambienti fino ad alcuni minuti prima frequentati da Pence e famiglia.

Il Senato entra in una pausa di emergenza. Ormai è chiaro a tutti: “Sono dentro“. Non si può più fare finta di nulla.

Ma…

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