Ottobre 28, 2023

La fine (forse) di Bibi Netanyahu

Bibi Netanyahu ne ha viste così tante per non sapere, per non capire.

Qualche anno fa, a chi gli domandava che tipo di eredità avrebbe voluto lasciarsi alle spalle, rispose senza esitazioni: “Mi piacerebbe essere ricordato come il protettore di Israele. Questo, per me, sarebbe abbastanza“.

Altri leader, prima di lui, hanno sperimentato lo shock di un attacco sul proprio territorio.

George W. Bush, all’alba dell’11 settembre, riteneva l’America una fortezza impenetrabile. Ma quando i terroristi di al-Qaeda dichiararono guerra agli Stati Uniti e all’Occidente quasi nessuno pensò di metterne in discussione l’autorità, il diritto a guidare la risposta del mondo libero. Almeno sulle prime, Bush venne perdonato, giudicato non colpevole. Perché gli americani compresero che non avrebbe potuto anticipare il cigno nero. Perché il Paese capì che Osama bin Laden aveva avuto successo proprio arrivando ad osare, a pensare l’impossibile, a realizzare il Male assoluto.

Volodymyr Zelensky ha per mesi pubblicamente ridimensionato gli alert provenienti dall’intelligence USA sulle intenzioni russe. Né nessuno potrà mai dire con certezza se la sua sia stata pura strategia comunicativa, desiderio di non diffondere il panico nell’opinione pubblica. O invece reale convinzione di trovarsi dinanzi all’ultimo dei molti bluff di Vladimir Putin. Eppure fin dall’ingresso dei primi carri armati russi in Ucraina, il leader di Kyiv ha avuto la sua gente a coprirgli le spalle e i fianchi. Per una ragione opposta a quella sperimentata da George W. Bush: l’attacco non era imprevedibile, ma inevitabile.

Ma allora perché per Netanyahu il discorso è così diverso? Perché in Israele si levano richieste a gran voce di dimissioni e passi di lato? Hamas, come al-Qaeda, non ha battuto il nemico in astuzia? E non era, come il Cremlino, intenta a covare odio verso il vicino, a pianificare in dettaglio un attacco? Non aspettava un suo passo falso, un suo momento di debolezza, per affondare a tradimento la lama?

Sì, è la risposta. Ma tutte queste attenuanti non tengono conto del contratto rinnovato per anni tra Bibi ed Israele. Questo patto non scritto, questo tacito accordo, recitava più o meno così: io so di avere i miei difetti, e voi li conoscete meglio di me; io so di avere molti vizi, e voi lo sapete meglio di me; ma dentro di voi sapete pure che nessuno meglio di me può proteggere Israele, ed io questo lo so.

È sulla base di questa intesa, di questo non-detto sempre presente, che “Bibi il Mago” è riuscito per anni a domare le onde del mare agitato israeliano come nessun altro. Ed è ancora sulla base di questo vincolo tradito che oggi, all’orizzonte, Benjamin Netanyahu scorge lo spettro della sua fine.

Le crepe che potrebbero minare il governo Netanyahu e la tenuta di Israele. Qual è il solo scenario che può salvare Bibi

Anche ora che Israele necessita di essere blocco granitico, pure adesso che i tanti distinguo sulle sue ragioni (e sui suoi torti) celano il desiderio di alcuni di vederne cessata l’esistenza, i suoi oppositori (dentro e fuori lo Stato Ebraico) aggiornano quotidianamente l’elenco delle colpe di Bibi. Contestano l’erogazione di fondi verso la Striscia: spiegano sia stata una mossa finalizzata a mantenere divisi Hamas e l’Autorità Palestinese, così da rinviare in eterno la soluzione dei due Stati. Gli addebitano di aver così finanziato i terroristi e i loro piani. Così come giudicano sbagliato, col senno del poi, l’aver consentito a migliaia e migliaia di cittadini di Gaza di entrare in Israele per lavoro: non era integrazione, era permettere al nemico attività di spionaggio senza controlli, dicono.

Così è chiaro che adesso sia tutto finito, che il mito di Mr Sicurezza sia crollato. I detrattori di Netanyahu lo accusano: Bibi trascorr…

2 commenti su “La fine (forse) di Bibi Netanyahu

  1. Ti distingui sempre. Sempre non ovvio e pieno di spunti che fanno riflettere. Del fatto che Israele mandasse aiuti a Gaza in varie forme e del flusso per lavoro, non si parla. Grazie.

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