Gennaio 30, 2024

Putin vs the West. Retroscena di guerra. Il sonno dell’Europa, l’ultimo schiaffo del Cremlino. Boris, Zelensky e la passeggiata in cerca dei cecchini russi

Al Bayerischer Hof di Monaco, il 19 febbraio 2022, c’è un’aria pesante, di quelle che non si dimenticano. E va bene, il sorriso di Boris Johnson è quello di sempre, la voglia di sparigliare pure, ma c’è un dettaglio: è il mondo tutt’intorno che sta per cambiare.

In qualità di primo ministro d’Inghilterra, BoJo è consapevole delle informazioni di intelligence che i servizi britannici e quelli americani stanno raccogliendo ormai da tempo. E dunque nessuno più di lui sa questo: non è più questione di “se“, ma solo di “quando“. Vladimir Putin attaccherà l’Ucraina.

Jens Stoltenberg, Segretario generale della NATO, condivide la straniante sensazione di vivere in una dimensione sospesa, quella di chi attende che l’ultimo granello di sabbia si depositi sul fondo della clessidra: “Sapevamo che la guerra poteva scoppiare in qualsiasi momento. Era strano passeggiare nelle sale di questo grande hotel e incontrare queste persone che non credevano che la Russia avrebbe invaso“, ricorda oggi.

Ma in Germania, alla Munich Security Conference più attesa degli ultimi anni, c’è anche un’italiana: è Lia Quartapelle. All’epoca responsabile Esteri del Partito Democratico, è stata da poco selezionata fra i “Young Leaders” del convegno. È di casa in quel contesto. Così non fatica a cogliere che l’evento di quest’anno si svolge all’interno di un’atmosfera “surreale“.

Tutti parlavano della possibilità che la Russia invadesse l’Ucraina“, racconta al Blog a distanza di tempo, “ma in pochi ci credevano. Anche persone con molte informazioni“.

Fa una certa impressione l’intervento di Kamala Harris, appuntamento clou di quella tre giorni di incontri. La vicepresidente degli Stati Uniti scandisce di fatto l’ultimatum americano a Vladimir Putin. Harris promette “sanzioni senza precedenti“, assicura che Washington difenderà “ogni centimetro del territorio NATO“. E tutti sperano che basti. Che il messaggio recapitato dall’inviata di Joe Biden in Europa convinca l’uomo del Cremlino a desistere dai suoi intenti, che il Vecchio Continente non sia spinto fin nel precipizio di una nuova guerra.

C’è un sentimento di incredulità diffusa alla cena di sole donne organizzata come ogni anno a margine della Conferenza. E Quartapelle non può dimenticare il racconto che Sarah Margon, nominata dall’amministrazione Biden per il ruolo di Assistant Secretary of State per Democrazia, Diritti Umani e Lavoro, confida tra una portata e l’altra.

La direttrice di Human Rights Watch in quel di Washington rivela non senza stupore che ai suoi amici del settore, in quel di Kyiv, è stato consegnato un piano per l’evacuazione: “Sembra che abbiamo imparato la lezione dell’Afghanistan“, commenta con lo sguardo di un’addetta ai lavori. Ma poi è la dimensione umana a reclamare spazio: “Mi sembra davvero incredibile che debbano scappare a Leopoli“. E non sono in pochi, quella sera, a ritenere assurda l’ipotesi che Kyiv venga posta sotto assedio.

Liz Truss dal canto suo non è ancora ascesa al ruolo di meteora a Downing Street.

All’epoca è ministro degli Esteri di Londra. Così da quel punto di osservazione privilegiato può notare come siano “francesi e tedeschi i meno convinti” del fatto che Putin finirà per attaccare. Già, i tedeschi. È con loro che Boris Johnson si riunisce per un meeting a porte chiuse, approfittando della kermesse. Ed è da loro che ascolta parole che non avrebbe voluto sentire. A pronunciarle è uno dei massimi consiglieri di Olaf Scholz.

Quando gli inglesi insistono, quando ripetono che Mosca ha ammassato 150mila truppe al confine, quando spiegano che quella in corso non è un’esercitazione, l’uomo del Cancelliere dice finalmente la sua: “Beh, guardate, se questo deve proprio accadere, la cosa migliore è che gli ucraini non oppongano resistenza“. A distanza di tempo, BoJo è abbastanza indulgente. Sostiene di aver compreso il sottinteso di Berlino, il punto di vista di chi pensava così di evitare un inutile spargimento di sangue. D’altronde a quel tempo quasi nessuno crede che l’Ucraina possa anche solo infastidire l’esercito russo. Eppure ci sono volte in cui ai freddi numeri, all’algida comparazione delle forze in campo, bisogna opporre la forza di un ideale, il coraggio e l’orgoglio dei propri valori. È con quello spirito, con la voglia di mettersi di traverso rispetto ai piani del Cremlino, che Boris Johnson comunica a Scholz e soci che quella posizione è per Londra semplicemente “inaccettabile“. Ma forse pure con quella tesi che rimbomba in testa, con il cuore turbato, appesantito molto più che da una sessione di jogging tra i parchi londinesi, che il primo ministro cerca una via d’uscita in uno dei corridoi dell’albergo bavarese.

Tutto avviene nel giro di pochi minuti, quando Johnson incrocia per caso il senatore americano Lindsey Graham. È un repubblicano del South Carolina, considerato in patria un falco della sicurezza. Pochi più di lui vorrebbero mettere i bastoni fra le ruote a Vladimir Putin. Ma non è così facile. Con l’eco delle loro parole attutita dalle mascherine, gli assistenti a fare da scudo ad occhi ed orecchie indiscrete, BoJo si fa avanti: “Gli ho detto: ‘Guarda, Lindsey, noi sosterremo gli ucraini. Voi lo farete?’“. La risposta di Graham è sincera: Boris, dipende. E più di preciso “dipende da quanto gli ucraini duramente combatteranno. Se resistono per due settimane o più, se si difendono davvero, allora vedrai venire a galla il sostegno del Congresso americano“.

Chi non ha dubbi su ciò che faranno gli ucraini una volta iniziato l’attacco è Volodymyr Zelensky.

Ai responsabili dell’intelligence ucraina che gli sconsigliavano di lasciare il Paese per recarsi a Monaco il presidente ucraino ha risposto con un sorriso: l’Ucraina sarà ancora lì al suo ritorno. Fa uno strano effetto, oggi, vederlo senza il suo caratteristico abbigliamento militare. E a dire il vero pure senza l’ombra di un pelo sul volto. Ma la platea che gli riserva il più caloroso degli applausi ancora non sa dire quanta consapevolezza ci sia in quel leader che promette: “Difenderemo la nostra terra, con o senza il supporto degli Alleati, che ci diano centinaia di armamenti o cinquemila elmetti“. L’ultimo non è un numero a caso, ma il massimo aiuto che Berlino fino a quel momento ha saputo offrire all’Ucraina a rischio invasione. “Ma tu guarda questo Zelensky“, pensa qualcuno nel pubblico: sfacciato è sfacciato, a parlare così dei tedeschi in casa loro. Ma forse ha pure fegato. E sì, sarà questo a salvare il suo Paese.

Il 24 febbraio la mezzanotte è passata da pochi minuti. Volodymyr Zelensky si presenta davanti alle telecamere. Il suo intervento viene ripreso dalle agenzie di tutto il mondo: “Oggi ho avviato una telefonata con il presidente della Federazone Russa. Risultato: silenzio. Per questo voglio rivolgermi al popolo russo. Noi ci difenderemo. Non attaccheremo, ma ci difenderemo. E quando ci attaccherete voi vedrete i nostri volti. Non le nostre spalle, ma i nostri volti“. Sono parole che lasciano il segno, una promessa che verrà mantenuta.

Negli stessi istanti, dall’altra parte dell’Oceano, a New York, è in corso una sessione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. È uno dei protagonisti, Martin Kimani, ambasciatore kenyano presso le Nazioni Unite, a raccontare: “Quando sono entrato in quella stanza, quella notte, si poteva sentire l’odore della tensione, della rabbia, della paura. La prima cosa che ho pensato è stata: ‘Questo è il vero Consiglio di Sicurezza, il motivo per cui questa stanza è stata costruita‘”.

Per uno strano scherzo del destino spetta proprio alla Russia la presidenza di turno nel momento in cui tutti gli altri Paesi chiedono a Mosca di desistere dall’invadere l’Ucraina. Ma dura meno di un’ora l’illusione che la diplomazia possa avere la meglio sui desideri di un uomo solo, quel Vladimir Putin che nel frattempo ha appena ordinato l’attacco. La scena che ha luogo negli istanti in cui la notizia fa il giro del mondo è surreale. Sui telefoni dei presenti è impostato il silenzioso, ma le vibrazioni impazzite segnalano che qualcosa di grosso è appena avvenuto: la guerra è iniziata con il Consiglio di Sicurezza riunito. È l’ultimo, il più audace e fragoroso, degli schiaffi di Putin. È evidente che Vasily Nebenzya, Rappresentante permanente della Russia alle Nazioni Unite, sia colto di sorpresa.

Lui non è certo tra i pochi eletti che Putin ha informato per tempo della volontà di attaccare. Ma il nativo di Volgograd impiega poco tempo ad adattarsi al copione di Stato. Quando l’inviato ucraino lo sfida a telefonare al ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, per chiedere spiegazioni, la risposta di Nebenzya è credibile quanto le motivazioni opposte nei mesi a venire da Mosca per giustificare le sue azioni: “Non telefonerò a Lavrov, è notte fonda“.

Chi non dorme è Volodymyr Zelensky. Sono le 4:30 quando il primo missile raggiunge Kyiv. Il presidente è il primo ad arrivare. Riunendo i consiglieri militari nel suo ufficio, è un appello accorato quello che rivolge loro: “Io non andrò da nessuna parte“, esordisce. “Credo che non abbiamo il diritto di lasciare il nostro Paese, il nostro popolo. Siamo un esempio importante. Questo è il momento in cui possiamo dimostrare perché siamo stati eletti. Questo è il motivo per cui siamo stati eletti. Questo giorno“. Oleksiy Danilov, capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale ucraino presente a quel tavolo, ricorda perfettamente la prima conversazione andata in scena con il presidente la notte dell’invasione: “Gli ho detto come si sarebbero dispiegate le cose secondo me. Saremmo rimasti soli per una settimana o due. Avremmo dovuto solo sopravvivere”.

“Se resistiamo ora, poi l’aiuto arriverà“, ricorda di aver detto. Le sue parole ricordano da vicino quelle pronunciate pochi giorni prima dal senatore americano Graham nei corridoi del Bayerischer Hof di Monaco, a colloquio con Boris Johnson. E proprio dagli Stati Uniti sta arrivando la telefonata che cambia per sempre lo scenario: dal suo alloggio alla Casa Bianca, il presidente Biden chiede di avere in linea Volodymyr Zelensky.

Amanda Sloat, responsabile del continente europeo nel team di Sicurezza Nazionale del presidente, è testimone diretta di quella drammatica conversazione: “Era surreale essere al telefono con un leader alle prese col fatto che il suo Paese veniva invaso ed era adesso in guerra. Zelensky, non sorprendentemente, era abbastanza agitato, molto provato. Il presidente Biden è stato molto chiaro nel chiedergli: ‘Cosa posso fare per aiutarti?“. Il leader di Kyiv ha già le idee molto chiare: “Ho bisogno che tu mobiliti il mondo a nostro sostegno“. E Joe Biden non se lo fa ripetere.

Già nelle prime ore dell’invasione russa, l’inquilino della Casa Bianca riunisce i suoi consiglieri militari, i leader dell’intelligence. La Situation Room è operativa a pieno regime. Ma la valutazione dello scenario non è quella che Biden avrebbe sperato di ricevere. È il capo del Pentagono, Lloyd Austin, a ricordare: “Abbiamo fornito al Presidente una panoramica di tutte le cose che stavamo vedendo in quel momento. E sembrava che Putin credesse di poter rovesciare il governo in pochi giorni, installando il suo governo. Guardando le forze in campo non c’era nulla di promettente“. A condividere questa impressione non sono soltanto gli americani. Anche a Londra il gabinetto di crisi presieduto da Boris Johnson è categorico: “Gli ucraini non saranno in grado di resistere per più di una settimana, o giù di lì“. Sono i soldati ucraini a fare la differenza, a ribaltare i pronostici, a convincere l’America che si può fare, che davvero si può credere di resistere all’avanzata di Mosca. Gli Stati Uniti inviano un primo pacchetto di aiuti militari del valore di 350 milioni di dollari. Non cambia i rapporti di forza sul terreno, ma invia un segnale politico chiaro.

Persino la Germania, il Paese dei 5mila elmetti, sembra ora rendersi conto che è giunto il momento di riconsiderare il pacifismo sui quali il moderno Stato tedesco è stato fondato, accettando un cambio di paradigma imposto dagli eventi. “Storico“, scrive in un messaggio indirizzato al suo superiore Steffen Hebestreit, consigliere di Olaf Scholz, quando il Cancelliere comunica davanti al Bundestag che Berlino aumenterà drasticamente la sua spesa militare. E che invierà armi all’Ucraina.

Il 24 marzo, ad un mese esatto dall’inizio dell’invasione, il primo Vertice NATO in presenza a Bruxelles è un momento spartiacque.

I croniti all’esterno puntano molto su Boris Johnson. Non dimenticano che è uno di loro, sanno che coltiva il gusto della battuta a effetto. E BoJo non li delude quando in un rapido passaggio davanti ai microfoni spiega che Vladimir Putin ha già oltrepassato una linea rossa, “quella della barbarie“.

Johnson è consapevole che esistano i margini per aiutare l’Ucraina a difendersi. E che molto, a dirla tutta, dipende da quello che l’ex primo ministro non esita a definire “un profondo senso di colpa” tra i presenti: “Se la NATO avesse dato seguito alle cose che ha detto” nel corso degli anni, “se avesse messo gli ucraini su un corretto percorso di adesione…non è detto che Putin avrebbe fatto ciò che ha fatto. È stata la nostra ambiguità collettiva, per così tanto tempo. Putin ha pensato: ‘D’accordo, non sono seri’. Credo che ognuno attorno a quel tavolo sentisse una specie di obbligo verso gli ucraini, obbligo ad aiutarli concretamente nel modo in cui potevamo farlo“.

E poi c’è Zelensky. In collegamento video con i membri NATO non chiede molto: l’1% dei vostri carri armati, l’1% dei vostri aerei, l’1% della vostra artiglieria. “Dateceli o vendeteceli. E vinceremo“, promette. Gli Alleati sono sinceramente colpiti dal coraggio di questo presidente. Certo, non vogliono fare il gioco di Mosca, non intendono spingersi troppo oltre cadendo nella trappola di chi vuole descrivere una Russia costretta ad agire poiché assediata dall’Occidente. Ma è chiaro a tutti che sia arrivato il momento di rimboccarsi le maniche, di saldare almeno in parte il debito che la NATO, con la sua inazione, ha contratto con il popolo ucraino.

Anzi, non proprio a tutti.

Sì, perché in realtà c’è ancora chi continua a credere che l’approccio diplomatico potrà portare i suoi frutti, che tenere un canale aperto con Putin, alla fine, si rivelerà mossa azzeccata. È il presidente francese, Emmanuel Macron, il massimo interprete di questa linea. E gli inglesi non apprezzano. A distanza di quasi due anni, Liz Truss ammette di essersi sentita “frustrata dal tentativo, in particolare del presidente Macron, di continuare a parlare con Putin. Pensavo inviasse messaggi molto contrastanti sulla determinazione occidentale“. Non ha tutti i torti.

Chi ha un approccio totalmente cristallino alla questione è il suo primo ministro. Ha molti, moltissimi difetti, ma neanche il più acerrimo dei suoi rivali metterebbe in discussione che il fiuto politico di Boris Johnson sia quello di un segugio. E adesso è questo a suggerirgli che qualcuno preferirebbe trovare una via d’uscita dalla guerra attraverso un accordo al ribasso, un patto che preveda la pace in cambio di terra. Non è così che BoJo pensa di poter archiviare la pratica: “Non puoi trattare con un coccodrillo che ti ha morso una gamba e adesso si propone di addentare l’altra“. È Zelensky in persona a dargliene atto: “Boris disse una cosa molto importante: ‘Sta a te e alla tua gente. Io sosterrò qualsiasi cosa deciderete’“.

Il 9 aprile, a sorpresa, Johnson vola a Kyiv: “Volevo soltanto che Volodymyr sapesse che non avrebbe dovuto sentirsi sotto pressione da parte di nessuno“. E Zelensky comprende bene il messaggio, visto che risponde: “Guarda, noi non rinunceremo a nulla. Non tradirò il mio Paese e le persone che sono state già uccise“.

In ciò che resta della visita c’è tutto Boris: “Ho realizzato che non avevo nessuna foto di questo avvenimento“, racconta oggi divertito l’ex primo ministro. Da qui l’idea: “Ho suggerito a Volodymyr che avremmo dovuto fare una passeggiata“. Non è una richiesta così scontata, quando a scandire la quotidianità della capitale sono gli allarmi antiaerei: “Nessuno usciva. Non ci vedevano per strada“, ricorda Zelensky. Johnson dice di aver passato gran parte del tempo ad osservare l’orizzonte, “a chiedermi se fosse rimasto qualche cecchino russo ad aspettarci. Ma stavamo benissimo. Volevamo dimostrare che, per quanto riguarda l’Occidente, stava vincendo e avrebbe vinto“.

La guerra in Ucraina“, spiega oggi Johnson con la lucidità dello studioso di storia, “è arrivata alla fine di un lungo periodo di esitazione e riluttanza dell’Occidente ad occuparsi di Putin. Potevi vedere la democrazia in ritirata, l’autocrazia farsi strada“. Poi eccolo, improvviso ma incontenibile, il guizzo del campione politico: “E l’invasione dell’Ucraina, spero, segnerà la fine di questo periodo. E sia il momento in cui l’Occidente dice: ‘Bene, Putin, no! Basta così! Ti rimettiamo a posto’“.


Questo articolo trae ispirazione dal primo episodio di “Putin vs the West – At War“, straordinario documentario mandato in onda ieri sulla BBC. Il racconto del Blog continuerà nei prossimi giorni in versione integrale per i soli iscritti.

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