25 Marzo 2024

Bibi Netanyahu e l’ultima battaglia. La rottura con Biden e l’operazione Rafah. Come cambia la prospettiva di Israele dopo lo strappo USA alle Nazioni Unite

Nicolas Sarkozy aveva appena finito di dire: “Non lo sopporto. È un bugiardo“, che subito Barack Obama prese la palla al balzo. Sfogò così una frustazione covata per anni: “Tu sei stanco di lui. E io che dovrei dire? Ho a che fare con lui ogni giorno!“. Non era il primo presidente americano a fare i conti con Bibi Netanyahu. Non sarebbe stato l’ultimo.

Fu il libro di memorie di un consigliere della Casa Bianca a raccontare dell’insofferenza di Bill Clinton nei confronti del primo ministro israeliano, a suo modo di vedere convinto di poter insegnare agli americani come trattare con gli arabi: “Crede di essere la superpotenza, e che noi siamo qui per fare tutto quello che ci chiede“, osservò il Presidente al termine di un incontro nello Studio Ovale. Molto tempo dopo, con gli spigoli di quella relazione ormai smussati, fu lo stesso Clinton ad ammettere di aver tramato per aiutare Shimon Peres a sconfiggere Netanyahu, alle elezioni israeliane del ’96: “Ho cercato di farlo in un modo che non mi coinvolgesse apertamente. Ho cercato di aiutarlo perché pensavo che fosse più favorevole al processo di pace. E ho cercato di farlo in modo coerente con ciò che ritenevo fosse nell’interesse di Israele“.

Cercò di farlo, ma non vi riuscì. E Netanyahu, il giorno del primo bilaterale alla Casa Bianca, non fece nulla per nascondere la sua soddisfazione: “Voleva farmi sapere che sapeva che non ero dalla sua parte e ci aveva battuti lo stesso. Ed era molto Bibi“.

Quanto a Joe Biden, lui non ha avuto di questi problemi. Almeno per molto tempo, almeno fino a oggi.

A pochi giorni di distanza dal 7 ottobre, dal più grave massacro del popolo ebraico dai tempi dell’Olocausto, il presidente degli Stati Uniti che scende le scalette dell’Air Force One per abbracciare il suo amico Bibi è sincero nelle sue intenzioni. Quanta vita c’è, dentro quella stretta.

Sono trascorsi 50 anni dalla prima volta che ha messo piede in Israele, in quel luogo che “ti entra nelle vene e non ti lascia mai“. Biden ricorda bene lo scambio di battute con Golda Meir. La prima donna a guidare lo Stato Ebraico scruta con occhi profondi il volto preoccupato del giovane senatore del Delaware in piedi nel suo ufficio, all’immediata vigilia della guerra dello Yom Kippur. Poi sentenzia: “Perché sembra così preoccupato, senatore Biden? Noi non ci preoccupiamo. Noi israeliani abbiamo un’arma segreta. Non abbiamo un altro posto dove andare“.

La prima volta che lui e Bibi Netanyahu hanno condiviso un pasto insieme è stata più di 40 anni fa. Biden era ancora al Senato, Netanyahu il numero due dell’ambasciatore israeliano a Washington. Non se le sono mai mandate a dire, ma il fatto che alla fine l’uno ci sarebbe stato per l’altro non è mai stato in discussione.

Di nuovo: almeno per molto tempo, almeno fino ad oggi.

La frattura personale tra Biden e Netanyahu. L’importanza del mancato veto americano al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Le possibili conseguenze sullo sfondo di un’operazione di terra a Rafah

Bibi definì Joe “parte della nostra mishpachah“, vocabolo yiddish per identificare la famiglia ebraica. L’americano si divertì a ricordare la dedica lasciata su una foto insieme all’israeliano: “Bibi, non sono d’accordo con un bel niente di quello che dici, ma ti voglio bene“.

Adesso c’è la politica a separarli, l’idea che sia impossibile conciliare le richieste dell’uno con le necessità dell’altro. Forse addirittura la sensazione che la corda si sia spezzata, che non abbia retto alle prove cui la Storia l’ha sottoposta. Eccolo, il segnale venuto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Più che l’approvazione di un cessate il fuoco destinato a restare lettera morta – domanda: chi dovrebbe farlo rispettare? – a contare è il mancato veto americano, nonché il fatto che Netanyahu lo abbia pubblicamente denunciato, scegliendo di alimentare l’idea dello stra…

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