Le ragioni di Israele. E quelle di Bibi Netanyahu
Si può credere legittimamente che le proteste dinanzi alla Knesset siano un segnale di vitalità per la democrazia di Israele. Certo che lo sono. Non solo, un comune cittadino può spingersi oltre: può sperare che ciò rappresenti l’inizio della fine di questo governo, auspicare nuove elezioni, tifare per una prossima sconfitta del primo ministro in carica, e con lui dell’esecutivo più a destra di sempre. Sì, benissimo, ma se può farlo, è perché Israele resta l’unica democrazia del Medio Oriente.
Si può avere di Bibi Netanyahu un giudizio pessimo, una cattiva opinione. Si può ritenerlo principale responsabile degli attacchi del 7 ottobre. Si può pensare non sia un leader all’altezza del ruolo colui che rifiuta di rendere conto dei propri errori. Si può criticare la deriva estremista del suo governo. Ci si può domandare che fine abbia fatto il Likud moderato di un tempo. Si può giudicare Netanyahu un uomo più interessato al proprio posto sui libri di storia che al futuro di Israele. Si può ritenerlo corrotto, aspettare che la magistratura israeliana faccia il suo corso. E si può può perché in Israele vige lo Stato di diritto. In Israele, non altrove.
Si può sperare che l’esperienza politica di Netanyahu sia agli sgoccioli, che l’ondata di malcontento finisca per scuotere le vacillanti fondamenta della sua eterogenea coalizione. E si può perché Israele è un Paese in cui i cittadini votano, protestano. E sì, in cui i governi cadono. Questo accade quando i partiti alla Knesett lo vogliono, magari su spinta del loro elettorato di riferimento. Non del tweet di questo o quell’altro politico straniero. “Non siamo una repubblica delle banane“, ha detto Netanyahu quando il leader del Senato USA, il democratico ebreo Chuck Schumer, ha invocato nuove elezioni in Israele. Aveva ragione lui, aveva ragione Bibi.
Si può chiedere a Israele maggiore cura nella tutela dei civili nella sua guerra a Gaza. Non gli si può chiedere, per quanto difficile, di rinunciare alla pretesa di una vittoria totale su Hamas. Si possono invocare ulteriori misure a protezione della popolazione palestinese non combattente e non connivente con i terroristi. Ma non si possono negare gli sforzi compiuti dall’esercito israeliano per raggiungere i propri obiettivi, proteggendo gli innocenti. Pochi esempi, qualche dato. Non sono a memoria molte le forze speciali che includono la presenza di medici – per i nemici – durante i propri raid. Né tanti eserciti – neanche i nostri, quelli occidentali – possono dire di aver sempre allertato per tempo la popolazione civile di un bombardamento in arrivo. Non siamo brutti, sporchi, cattivi: è che una guerra è sempre una guerra, e la nostra dottrina ha spesso suggerito attacchi diffusi, con forza schiacciante, per scoraggiare in partenza ogni qualsivoglia tentazione di resistenza. Israele è impegnata da mesi nel contesto di una guerra urbana con difficoltà senza precedenti, fronteggia terroristi che giocano in casa, abituati a farsi scudo della popolazione civile, è tattica elevata a sistema. La sintesi migliore è dunque quella di John Spencer, titolare della cattedra di studi sulla guerra urbana presso il Modern War Institute (MWI) di West Point: “Circa 18.000 civili sono morti a Gaza, un rapporto di circa 1 combattente per 1,5 civili. Data la probabile inflazione del conteggio dei morti da parte di Hamas, la cifra reale potrebbe essere più vicina a 1 a 1. In ogni caso, il numero sarebbe un’enormità. In ogni caso, il numero sarebbe storicamente basso per una moderna guerra urbana“.
Si possono suggerire soluzioni alternative ad un’incursione di terra a Rafah, come da tempo sta facendo l’America. Si possono utilizzare tutte le leve negoziali a disposizione per costringere Netanyahu al tavolo, perché ascolti questi consigli, affinché delinei un piano chiaro sul giorno dopo a Gaza. Ma alla fine restano come bussola le parole pronunciate all’indomani del 7 ottobre da un ex presidente americano ritenuto con semplificazione inquietante un “guerrafondaio”. Il suo nome è George W. Bush: “In una democrazia, la voce del popolo è importante e ci sarà stanchezza. Il mondo dirà: ‘Israele deve negoziare’. Hamas non ha intenzione di negoziare. Queste persone hanno giocato le loro carte. Vogliono uccidere quanti più israeliani possibile. E negoziare con degli assassini non è un’opzione per il governo eletto di Israele. Quindi, dovremmo rimanere saldi, ma non passerà molto prima che qualcuno dirà: ‘Questo è andato avanti per troppo tempo, sicuramente c’è un modo per risolvere la questione attraverso i negoziati. Entrambe le parti sono colpevoli’. La mia opinione è che una parte è colpevole e non é Israele“. Bush non aveva la palla di vetro, semplicemente conosce il mondo.
Così si può avversare Netanyahu, ritenere che sia preferibile per lo Stato Ebraico un leader diverso, al momento del voto – quando sarà – schierarsi a sostegno di un altro candidato. Ma nel frattempo rimane la verità pronunciata da questo primo ministro israeliano poche ore fa, parlando alla nazione:
“Quello che è successo negli ultimi mesi è che il terribile massacro” del 7 ottobre “è stato rapidamente dimenticato. (…) Come è possibile che si creda alle cose peggiori: il genocidio, quelle affermazioni contro lo Stato di Israele? (…) Una volta ho posto questa domanda a mio padre, uno storico di fama mondiale che si è occupato a lungo di antisemitismo. Gli chiesi: ‘Com’è possibile che nell’antichità, 500 anni prima del cristianesimo, credessero il peggio contro gli ebrei; nel Medioevo, che usassimo il sangue dei bambini cristiani per cuocere la matzah; e nell’era moderna, quello che i nazisti hanno diffuso? Come è possibile che milioni di persone in tutto il mondo abbiano creduto a tutto questo? Deve essere ignoranza’, ho detto. Mio padre rispose: ‘Non solo ignoranza’. L’ignoranza non può spiegare perché un grande filosofo francese come Voltaire abbia creduto alle affermazioni antisemite o un grande scrittore russo come Dostoevskij abbia creduto alle menzogne antisemite. C’è un virus che ci accompagna da millenni, un virus dell’antisemitismo” che cambia forma ma rimane. “La domanda è: cosa facciamo al riguardo?”. Due cose, risponde Netanyahu: “Prima di tutto, abbiamo fondato uno Stato per poter combattere fisicamente contro coloro che vogliono ucciderci. In secondo luogo, dobbiamo respingere con ogni mezzo questi attacchi – e se non ci uniamo per respingere questi attacchi, nessun altro lo farà per noi”.