Ottobre 30, 2019

Nicola Zingaretti e il pesciolino rosso

Durante le primarie meno entusiasmanti della storia del Pd avevo scritto che Nicola Zingaretti era rimasto il fratello del commissario Montalbano.

Una constatazione del fatto che il governatore del Lazio mancasse del carisma necessario al leader di una comunità per affermarsi come tale. Un capo non dev’essere un comandante, neanche un Capitano. Ma dev’essere in grado di indicare la rotta, di rappresentare una guida soprattutto quando tira vento di burrasca.

Nicola Zingaretti non è tutto questo. E non significa che il segretario del Pd sia una cattiva persona. Ma un pesciolino rosso messo in una piscina di squali difficilmente riuscirà a sopravvivere a lungo. Nella migliore delle ipotesi, rintanandosi in un angolo, nascondendosi, non visto, potrà guadagnare del tempo. Questo ha fatto Zingaretti nell’immediatezza della crisi agostana aperta da Salvini. E così facendo ha scavato la fossa a sé stesso e al Partito Democratico.

Quando Matteo Renzi ha dato il via alla sua partita personale, aprendo le porte all’accordo di governo con il MoVimento 5 Stelle, Nicola Zingaretti ha perso il treno per il voto. In quella fase storica il Pd era intorno al 25%. La fase tracotante di Salvini, quella dei “pieni poteri” per intenderci, avrebbe posto le condizioni per formare un’alleanza di ampio respiro, non sbilanciata a sinistra, appetibile anche per i centristi e i moderati italiani. Le Politiche sarebbero diventate un referendum sulla figura di Salvini: e di solito in Italia questi tipi di elezioni finiscono sempre allo stesso modo. Male. Per coloro che tentano di mettere le mani sul Paese.

Una volta ammessa (coi fatti) la propria subalternità rispetto a Renzi e al suo disegno, vuoi per senso di responsabilità, vuoi per mancanza di coerenza e coraggio, Nicola Zingaretti ha compiuto il secondo errore della sua esperienza da segretario: l’alleanza col MoVimento 5 Stelle. Non ha concesso al governo una fase di rodaggio, agli elettori un tempo di “ambientamento”. Ha spinto sull’acceleratore presentando in Umbria un insieme di sigle per paura di Salvini. E questa paura è stata percepita dagli elettori – che non sono scemi – e interpretata come figlia di un’ammucchiata senza domani. Correttamente.

Ora Zingaretti è vicino al suo terzo errore. Quello fatale. Il voto regionale ha attestato che il Pd, inteso come maggior partito del centrosinistra, dispone di uno zoccolo duro di consensi importante. Siamo intorno al 20/25%. Il crollo del M5s dà certamente modo a Zingaretti di far sentire il proprio peso nell’alleanza. Il Pd è junior partner in Parlamento ma è più forte nel Paese. Questa condizione potrebbe suggerire a Zingaretti l’idea di un azzardo: quella di porre fine prematuramente all’alleanza con un MoVimento 5 Stelle prosciugato e morente per tornare al voto e sfidare Salvini. Magari con Conte candidato premier, a patto che il suo indice di gradimento sia anche sinonimo di voti. Perché lo ricordiamo: “Giuseppi” non si è mai misurato con le urne, è un’incognita.

C’è questa tentazione. Ma è troppo tardi.

Un voto oggi non sarebbe più un referendum su Salvini. Ma tra Salvini e quelli che hanno tentato di aggirare il voto per restare aggrappati alle poltrone. E’ certamente una semplificazione, ma è anche il prezzo da pagare per aver perso il treno del voto quando stava passando. Zingaretti è all’angolo. Può solo tentare di fare ancora il pesciolino rosso. Perché nella vita saper scegliere i tempi è importante. In politica di più.

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