Settembre 9, 2020

Piani “segreti” e bugie sulla pandemia: i leader che hanno avuto paura della verità

Bob Woodward è una leggenda vivente del giornalismo americano. Parliamo dell’uomo che insieme a Carl Bernstein partorì l’inchiesta del “Watergate”, lo scandalo che portò alle dimissioni del presidente Richard Nixon. Nessuno in America può mettere in discussione Bob Woodward, la sua professionalità, il suo rispetto per il lettore e per la notizia.

Ma anche volendo pensar male, pur considerando che qualche sciroccato complottista è sempre possibile trovarlo, il punto di forza del nuovo libro del giornalista, intitolato “Rage” (“Rabbia”), è che non si limita a ricostruire la gestione del coronavirus da parte dell’amministrazione Usa con notizie di seconda, terza o quarta mano. Non si affida alla “gola profonda” insoddisfatta del suo ruolo nello staff presidenziale; non riporta il commento acido e senza fondamento della segretaria che passa il tempo a fare fotocopie nell’ala ovest.

No, Bob Woodward parla direttamente con Donald Trump, ne riporta fedelmente le parole. Con tanto di virgolette, corroborate da registrazioni telefoniche.

Ed è lui, il presidente in persona, ad ammettere di essere stato informato della pericolosità del coronavirus ben prima che gli Stati Uniti registrassero il primo morto ufficiale per Covid-19. Nessun buco nell’acqua dell’intelligence americana: un briefing top secret del 28 gennaio informava Donald Trump che il coronavirus rinvenuto in Cina sarebbe stata “la più grande minaccia alla sicurezza nazionale” che la sua presidenza si sarebbe trovato ad affrontare.

Ma anche dinanzi a questi avvertimenti c’è lui, la viva voce del comandante in capo della nazione più potente al mondo, a dichiarare che “ho sempre voluto minimizzarlo (il virus, ndr) per non creare panico“.

Ora riavvolgete pure il nastro: ripensate ai comizi – avete letto bene, i comizi, pieni di gente esposta consapevolmente al contagio – in cui Trump ridicolizzava i Democratici con l’accusa di diffondere un panico immotivato.

Ripensate alle sue conferenze stampa, one-man show in cui The Donald rassicurava l’America sul fatto che il coronavirus sarebbe ad un certo punto semplicemente scomparso, “like a miracle“, come un miracolo. E adesso giudicate questi comportamenti alla luce delle rivelazioni contenute nel libro di Woodward, delle parole pronunciate da Trump in persona, registrate – si possono ascoltare cliccando qui – in più conversazioni tra il giornalista e il presidente.

Trump riconosce che “questa roba è mortale“, che il pericolo non riguarda più soltanto gli anziani o i grandi anziani, ma che la minaccia si sta allargando anche ai più giovani. Eppure si limita a farlo al telefono con un giornalista che sta scrivendo un libro, usando un tono confidenziale, come se stesse parlando con l’amico del cuore della tresca tra il suo vicino di casa e la mamma: qualcosa che non deve uscire da questa stanza.

Certo, non c’è da scandalizzarsi. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che governi e leader decidono di nascondere al “popolo” la realtà dei fatti. La valutazione su quanto l’opinione pubblica sia capace di tollerare è senza dubbio complessa, meritevole di approfondimento. Né si può dire che la scelta di privare una nazione della verità sia unicamente lo “schiribizzo” di un presidente “sui generis” come Trump.

Ne abbiamo avuto un chiarissimo esempio persino in Italia, dove da pochi giorni sono stati pubblicati i primi verbali delle riunioni intercorse tra gli esperti del Comitato Tecnico Scientifico e vari esponenti del governo. Dalla loro lettura è emersa chiaramente la volontà di tenere riservate quelle conversazioni. Nessun complottismo, attenzione, soltanto da parte dei protagonisti il convincimento che modelli previsionali applicati ai morti di una pandemia avrebbero avuto il solo effetto di generare il panico nella popolazione.

Può darsi che sia così, può essere che in un clima di grande paura com’era quello dei primi giorni di epidemia conclamata in Italia, fosse necessario tenere segreti gli scenari più oscuri. Ma al contrario non è comprensibile che a molti mesi di distanza da quei giorni non vi sia chiarezza da parte delle istituzioni sulla natura di quei piani “segreti”. Né si capisce perché il governo e gli esperti da questo consultati continuino a dire che tutto è stato già reso pubblico, quando invece mancano per certo all’appello lo studio presentato dal matematico Stefano Merler al CTS – che ipotizzava nello scenario peggiore 2 milioni di contagi in Italia e fra i 35mila e i 60mila morti – ma soprattutto il “piano di organizzazione della risposta dell’Italia in caso di epidemia” citato espressamente nel verbale del 24 febbraio.

Alla luce di questi fatti, sorge dunque spontaneo domandarsi fino a che punto la comunicazione del governo, e in particolare del presidente del Consiglio – protagonista indiscusso nei giorni della grande crisi – sia stata onesta, più che corretta.

Questo blog non ha esitato a sottolineare come il più grande merito di Giuseppe Conte sia stato quello di rassicurare un Paese che per alcune settimane ha temuto di non farcela.

Ma ora che non tutto sembra più trasparente e limpido, adesso che il senno del poi consente di ragionare con lucidità maggiore, sembra quanto mai stonato il richiamo che Conte, intervistato il 9 marzo da La Repubblica, faceva a “vecchie letture su Churchill“, quasi tracciando un paragone tra Italia alle prese con il virus e Inghilterra sotto le bombe di Hitler, e di conseguenza tra sé e l’allora primo ministro inglese. Con un piccolo particolare di differenza: anche dinanzi ad un nemico terrificante come il nazismo, Sir Winston Churchill, decise di parlare con la lingua della verità alla sua gente.

Con gli aerei tedeschi della Luftwaffe che bombardavano le città inglesi, perfino Londra, Churchill non si rese protagonista di discorsi paternalistici, piuttosto ammise che “non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore“. Con il concreto rischio di venire sormontato dalla soverchiante potenza militare nazista, il primo ministro inglese si disse sicuro:

Ci dimostreremo ancora una volta in grado di difendere la nostra isola, di cavalcare la tempesta della guerra e di sopravvivere alla minaccia della tirannia, se necessario per anni, se necessario da soli. (..) Anche se ampie parti dell’Europa e molti Stati antichi e famosi sono caduti o potrebbero cadere nella morsa della Gestapo e di tutto l’odioso apparato del dominio nazista, noi non desisteremo né abbandoneremo. Andremo avanti fino alla fine. Combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e gli oceani, combatteremo con fiducia crescente e con forza crescente nell’aria, difenderemo la nostra isola a qualunque costo. Combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei luoghi di sbarco, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline, non ci arrenderemo mai; e se, cosa che non credo neanche per un momento, quest’isola o gran parte di essa fosse soggiogata e affamata, allora il nostro impero d’oltremare, armato e guidato dalla flotta britannica, continuerà la lotta fino a quando, se Dio vorrà, il Nuovo Mondo, con tutta la sua forza e potenza, si muoverà al salvataggio e alla liberazione del vecchio“.

Leggere Churchill, per capire cosa significa guidare una nazione attraverso una tempesta. Leggerlo ancora, per comprendere che il popolo ha il diritto di conoscere la verità, anche quando fa maledettamente paura. Gli inglesi temevano la sconfitta, ma hanno avuto il coraggio di evitarla.

Perché senza il popolo non si vince una guerra, senza verità è impossibile combatterla.

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