Spese militari: le tre strade (in salita) di Draghi per evitare gli agguati di Conte
Sul fatto che Mario Draghi andrà fino in fondo, sulla questione dell’aumento delle spese militari, nessuno nutre dubbi. Il presidente del Consiglio ha pubblicamente ribadito “l’impegno storico dell’Italia nei confronti della NATO” e garantito che “continueremo ad osservarlo“. Così soltanto in un caso il premier potrebbe essere non in grado di mantenere la parola data: la caduta del suo governo.
Per evitare questo scenario, Draghi ha attualmente tre strade. La prima è quella più “violenta“: ricorrere al voto di fiducia per confermare l’ordine del giorno con cui il 16 marzo – non un secolo fa – la Camera dei deputati ha impegnato il governo ad aumentare le spese militari, oggi intorno ai 25 miliardi di euro l’anno, e a portarle fino al 2 per cento del Pil, quindi fino a circa 37 miliardi di euro.
Al netto delle polemiche di questi giorni, bisogna infatti ricordare che a votare favorevolmente rispetto al documento avanzato dalla Lega – e sottoscritto da diversi deputati del Pd, Forza Italia, Italia viva, M5S e Fratelli d’Italia – sono stati ben 391 voti onorevoli su un totale di 421 presenti, con soli 19 contrari. Una larga maggioranza, dunque, che negli ultimi giorni si è però sfarinata in maniera preoccupante. La Lega ha deciso di non ripresentare lo stesso Odg al Senato, forse per dar seguito all’apparente svolta pacifista di Salvini (“Io sono in difficoltà quando qualcuno parla di armi, fatico ad applaudire“). E lo stesso Giuseppe Conte ha legato la sua riconferma alla presidenza M5s proprio al “no” su questo tema, annunciando che “sarò il presidente del Movimento 5 Stelle che dice no ad un aumento massiccio delle spese militari a carico del bilancio dello Stato, soprattutto in un momento del genere“.
Ricorrere alla fiducia, però, potrebbe provocare una strappo non sanabile all’interno della maggioranza. Davanti ad un diniego così netto da parte di Conte appare (sulla carta) impossibile per l’avvocato fare marcia indietro. Allo stesso tempo, dopo aver fatto mancare la fiducia su un tema cruciale come questo, il Movimento 5 Stelle non potrebbe rientrare nella maggioranza come niente fosse. Di più: anche volendo aggirare l’ostacolo ponendo la questione di fiducia, il governo si troverebbe a dar vita ad una strategia di corto respiro. Far votare il testo del decreto Ucraina approvato dalla Camera, con allegato l’ordine del giorno del 16 marzo, impedirebbe sì di votare emendamenti ed ordini del giorno, ma avrebbe il solo effetto di rinviare la discussione di una settimana. Tra pochi giorni, infatti, è prevista la discussione del DEF, il documento di programmazione economica e finanziaria, e lì dovranno essere esaminate e successivamente votate le previsioni di spesa, incluse quelle legate al comparto militare. Per questo motivo, allo stato attuale è improbabile che il governo decida di chiedere la fiducia.
Restano allora altre due strade per il governo Draghi.
Una è quella più auspicabile, ma anche la più difficile: trovare l’intesa su un documento di maggioranza condiviso da tutti i partiti. A questo risultato spera di arrivare in particolare Enrico Letta, il quale nei giorni scorsi si è detto “convinto che parlando e discutendo troveremo le soluzioni“. Un ottimismo, quello del segretario dem, difficilmente giustificabile alla luce dei distinguo emersi anche all’interno del suo campo, con la sinistra pacifista da giorni impegnata in una levata di scudi. Anche nel centrodestra, peraltro, la soluzione non è semplice. Il capogruppo al Senato della Lega, Massimiliano Romeo, ha lasciato intendere che è certamente “giusto rispettare accordi internazionali” ma “abbiamo semplicemente chiesto di moderare un po’ le parole“. Di fatto, l’obiettivo più alla portata per il Carroccio pare e…