Gennaio 8, 2020

Il raid della paura dell’Iran. Ora Trump può fermarsi

La scommessa di partenza di Donald Trump era quella che l’Iran, dopo l’uccisione di Qassem Soleimani in Iraq, non avrebbe risposto in maniera (s)proporzionata all’offesa subita. Si possono fare molte riflessioni sulla definizione di “proporzionata”. Ad esempio: a cosa avrebbero dovuto puntare gli iraniani per ritenersi soddisfatti? Ad un attentato sul suolo americano? Ad un’aggressione senza precedenti verso Israele? All’eliminazione di un componente di primo livello dell’amministrazione Usa? Sembrano discorsi da fantascienza, ma sono gli stessi pronunciati nelle riunioni dei vertici iraniani all’indomani della morte di Soleimani. Dare al popolo arrabbiato una parvenza di vendetta, farlo senza scatenare la furia americana: questo il complicato obiettivo da raggiungere.

Ora, anche fossero confermati i numeri diramati dalla tv di stato iraniana sugli almeno 80 “terroristi americani” uccisi nella rappresaglia di questa notte – cosa tutta da verificare, è anzi molto probabile che la propaganda abbia gonfiato questi numeri – di cosa parleremmo? Di sicuro di una risposta “razionale” da parte di Teheran. Può fare effetto descrivere in questi termini un bilancio eventualmente così pesante di vite umane spezzate nel giro di pochi attimi, con un doppio strike notturno arrivato dall’alto, che alle vittime non avrebbe dato neanche il tempo di un segno della croce. Ma è nei termini della guerra che bisogna ragionare per tentare di capire ciò che sta succedendo e cosa potrà ancora accadere nel Golfo.

Il dato che emerge chiaramente è che Trump ha vinto la prima mano. Ma ora la speranza è che si renda conto che tutto questo non è un gioco. L’elemento di paura della Repubblica Islamica trasuda chiaramente dalle parole affidate a Twitter dal ministro degli Esteri Zarif: “L’Iran ha intrapreso e portato a termine misure proporzionate di autodifesa in base all’articolo 51 della Carta Onu, prendendo di mira la base da dove è stato lanciato l’attacco armato codardo contro i nostri cittadini e alti ufficiali. Non cerchiamo un’escalation o una guerra ma ci difendiamo da ogni aggressione“. Ci sono dei passaggi chiave che denunciano la volontà di fermarsi: sono quelli evidenziati.

L’Iran che parla di misure “proporzionate“, di “autodifesa“, che incastona la sua rappresaglia nel contesto delle Nazioni Unite, che chiude le comunicazioni con la precisazione che Teheran non cerca un’escalation: cos’è tutto questo? Ci troviamo di fronte ad una dimostrazione di razionalità o ad un’ammissione di debolezza? Più probabilmente la seconda. La teocrazia non avrebbe potuto “non” rispondere alla morte di Soleimani. Abbiamo parlato del rapporto quasi sentimentale che il popolo nutriva nei suoi confronti. Subire l’aggressione Usa senza reagire avrebbe significato per i vertici della Repubblica Islamica una delegittimazione di sé, un atto di paura – normale, quando dall’altra parte ti trovi di fronte la superpotenza – che il popolo non avrebbe capito, perdonato.

Ma se fino a questa notte il pallino era nelle mani di Teheran, se il mondo guardava con apprensione al possibile fallo di reazione che sarebbe potuto scaturire dall’Iran, da oggi è di nuovo alla Casa Bianca che bisogna affidare le speranze di una de-escalation nella regione. Perché meno di questo Teheran non avrebbe potuto. Ma neanche di più.

Il mondo intero si è chiesto in questi giorni cosa avesse spinto Trump ad ordinare l’uccisione di Soleimani. Se c’è dell’altro, oltre all’aspetto emozionale che sempre contagia gli Usa quando si tratta dell’Iran, oltre alla volontà di eliminare un avversario che stava organizzando attentati contro gli americani, lo capiremo presto.

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