Luglio 1, 2020

Di Maio è il peggior ministro degli Esteri della storia italiana: dia le dimissioni

Luigi Di Maio entrerà nei libri di storia come il peggior ministro degli Esteri che la Repubblica abbia mai avuto. Gli esperti di geopolitica, quelli bravi, sono soliti dire che la strategia di un Paese non si inventa: va soltanto riconosciuta. Precisato che a Di Maio non chiedevamo di ricostituire l’Impero Romano, è fuori discussione che l’ex capo politico del MoVimento 5 Stelle stia lasciando soltanto macerie. Tre esempi: Libia, Regeni, Hong Kong. E una richiesta: dimissioni.

Quello consumatosi in Libia è un disastro annunciato che soltanto una politica miope poteva non vedere. Ammantati di un pacifismo antistorico, derisi dalle cancellerie internazionali, di volta in volta sorprese dall’incapacità del nostro governo di difendere l’interesse nazionale, l’Italia ha semplicemente rinunciato ad avere un ruolo nella sua ex colonia. Davvero qualcuno pensa si possa dettare legge nel bel mezzo di una guerra mentre altri Stati inviano truppe a combattere? Realmente qualcuno è convinto che escludere un intervento militare possa scoraggiare gli altri Paesi dal mettere i “boots on the ground”, gli stivali sul terreno, ed estendere la loro influenza? Di Maio in Libia ha infilato un disastro dopo l’altro: ormai siamo con un piede fuori da quello che fu il nostro cortile di casa. Quanto questo sia grave lo capiremo quando qualche potenza non propriamente alleata tenterà di installare basi militari a poche miglia dalle nostre coste.

Sul caso Regeni l’Italia ha subito l’ennesimo affronto da parte dell’Egitto. Questo blog ha da subito espresso una posizione chiara sul fatto che la vendita delle fregate militari al Cairo, senza ricevere in cambio nessun atto concreto sul fronte della collaborazione nelle indagini per la morte del nostro ricercatore, si sarebbe rivelata un errore politico e geopolitico. Non solo il nuovo procuratore egiziano non ha risposto ad alcuna delle 12 domande della rogatoria inviata dalla Procura di Roma ormai 14 mesi fa, ma ha anche chiesto di effettuare alcune verifiche sulle attività di Giulio in Egitto, quasi a voler rinverdire i soliti sospetti sul fatto che il nostro connazionale fosse nel Paese dei Faraoni per compiere un’attività spionistica. Il fallimento della diplomazia italiana rappresentata da Di Maio è lampante: a quasi 5 anni dall’uccisione di Regeni non ci sono neanche indagati. Chi pensava che trattare Al Sisi coi guanti bianchi avrebbe portato a qualcosa (Conte in primis) ha sbagliato. D’altronde se siamo i primi a dare un prezzo ai nostri cittadini (l’accordo per le fregate militari questo è), perché dovrebbero essere altri Paesi a rispettarci?

Chiudiamo con la partita di Hong Kong, sentita come meno prossima all’agenda italiana ma in realtà specchio degli sfaceli di Di Maio. Sinceramente convinti che la Cina sia la potenza che avanza, ignari del fatto che Pechino impiegherà decenni a risolvere le proprie contraddizioni interne prima di poter soltanto insidiare il primato americano, il MoVimento 5 Stelle ha legato l’Italia al progetto delle Nuove Vie della Seta cinesi, cavallo di Troia che ha scaturito le ire di Washington. Ora, offuscato da un pensiero economicistico che perde di vista il contesto generale, il governo italiano e il suo ministro degli Esteri tacciono dinanzi ai soprusi di Pechino su Hong Kong. Smarcandosi ancora una volta dall’Occidente – così come avvenne per il Venezuela – l’Italia non condanna, non storce il naso, non protesta per l’approvazione della legge per la sicurezza nazionale della Cina che cancella le libertà dei cittadini di Hong Kong. Venati di falso moralismo, quelli di “onestà onestà” preferiscono il silenzio, lasciando a quanti spesso vengono criticati dal mainstream l’onere di provare a salvare gli hongkonghesi.

Sconteremo nei prossimi anni il prezzo di una politica estera così dissennata e senza visione. In un Paese normale, un ministro degli Esteri che avesse registrato così tanti flop, in così poco tempo, su altrettanti scenari internazionali si sarebbe già dimesso. In un Paese normale, appunto.

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